Siamo, bisogna riconoscerlo, in una fase di sospensione. Non soltanto per il virus, ma per la stessa generale assenza di prospettive negli stessi rapporti internazionali.
Dalle oscure prospettive in Libia e nel Medioriente, a noi contigui; ai Balcani, dove la tregua da precaria è diventata stasi; all’Ucraina, diventata linea di frontiera con una Russia che, considerandosi orientale, ci volta le spalle; alla Turchia, dove un ‘dittatore’ offeso si irrigidisce; all’Iran, dove i negoziati per l’accordo nucleare stentano a riprendere; all’Afghanistan, che il ritiro occidentale rischia di far ripiombare nel caos; alla Cina, impegnata in una multiforme assertività. Per non parlare di un’Africa nera abbandonata a se stessa e di un’America Latina che rimane in mezzo al guado.
Il tutto alla fine di un ‘secolo americano’ che stenta a darsi una nuova denominazione, che non sia quella del ritorno ad un sovranismo in contraddizione con la sopravvenuta interconnessione degli interessi di ognuno. Palesi rimangono in effetti le diverse impostazioni nei presunti schieramenti degli antagonisti dichiarati del sistema internazionale liberale, di marca euro-atlantica.
Ufficialmente solidali, Cina e Russia hanno agende diverse, mentre Turchia e Russia sono su fronti opposti in Ucraina, fra Armenia e Azerbaigian, in Siria e Libia. Ma che l’America non sia più disposta a tirare le castagne dal fuoco ad altri, e l’Europa, dopo averla delegata per decenni oltre Atlantico, non possa ostentare la fermezza necessaria, è altrettanto di pubblico dominio. Con il ritorno della normalità nell’amministrazione americana, le prese di posizione dell’Occidente si stanno facendo più esigenti, ma non perentorie né incisive al pari di quelle dei suoi interlocutori.
Ne risulta un’asimmetria strategica fra Est e Ovest che pare dar ragione al conflitto di civiltà evocato da Huntington. Da tanti allora deprecato, ma che Mosca e Pechino, e nella loro scia tanti autocrati asiatici, affermano. Una situazione il cui assestamento, si direbbe, non potrà fare affidamento che sui condizionamenti economici e finanziari della globalizzazione. Che dipenderà però dal decorso del tempo piuttosto che dal funzionamento dei meccanismi collaborativi previsti dalla Carta delle Nazioni Unite.
Non un ritorno alla contesa fra idealismo e pragmatismo si può però configurare; semmai, il ricorso al ‘realismo etico’ che Niebuhr propugnava alla fine dell’ultimo conflitto mondiale. In un rapporto calibrato fra le ricorrenti emergenze di breve raggio e l’auspicabile direzione convergente a più lungo termine.
Le sanzioni comminate per violazioni delle più elementari norme di comportamento interne e internazionali si basano sulla presunzione che esista una comunità delle nazioni. In attesa che essa torni auspicabilmente a manifestarsi, un rinnovato rapporto euro-americano deve piuttosto concentrarsi sugli evidenti interstizi dell’operato altrui. In Birmania come nel ‘grande Medioriente’, piuttosto che sui punti di diretto contatto in Ucraina, Georgia o nel Mare cinese meridionale.
Chiamando a raccolta a tal fine, non già nuovi alleati in schieramenti da seconda Guerra fredda, bensì ogni possibile partner (‘compagno di strada’ si sarebbe detto una volta), da attivare caso per caso e nelle appropriate sedi internazionali.
Il nuovo governo italiano, pur avendo dimostrato di averlo finalmente compreso, non può però per il momento contare sulla sponda di Francia e Germania, che si avviano verso importanti contese elettorali interne. Né, contrariamente a quanto ci siamo sbracciati ad argomentare in occasione della visita a Washington del nostro Ministro degli esteri, possiamo vantarci di essere pertanto diventati gli interlocutori privilegiati dell’America.
Nonostante l’indiscutibile nostra carenza di un preminente interesse nazionale. O forse proprio per questo.