Alla domanda se considerasse Putin un ‘killer’, la laconica risposta del Presidente Biden, ‘I do’, ha suscitato lo sdegno dei benpensanti. Specie italiani, che, pur usandolo con crescente frequenza, non hanno molta dimestichezza con l’inglese.
‘Killer’ è termine generico, diverso da ‘murderer’. Anni fa ci scandalizzammo per la formula ‘rogue states’, tradotta sbrigativamente come ‘Stati canaglia’ invece che ‘ribelli’. D’altronde, decenni fa, Reagan rivolse al regime di Breznev l’accusa di essere un ‘impero del male’. Repetita comunque non juvant, si direbbe.
Lo scambio di contumelie in Alaska fra i Ministri degli esteri americano e cinese ha parimenti violato le norme non scritte della diplomazia. Più che di sfoghi umorali inconsulti, in ambo i casi può essersi trattato di sceneggiate catartiche, destinate a scuotere opinioni pubbliche intorpidite. A mettere le carte in tavola.
Obama invocava il ‘reset’ con Mosca e il ‘pivot’ verso l’Asia. La duplice direttrice che il quadriennio della ‘America first’ trumpiana ha rinnegato. Durante il quale il comportamento e i pronunciamenti di Putin e di Xi si sono fatti parimenti offensivi delle buone regole diplomatiche, a danno del tessuto connettivo internazionale. In una competizione per il predominio mondiale che Mosca e Pechino ritengono di poter far precedere dal dominio delle menti, in un ritorno alla competizione ideologica. Con il ritorno ad attività di disinformazione e di diretta interferenza, che la globalizzazione delle comunicazioni paradossalmente aggrava invece di dissipare.
Operante di preferenza dietro le quinte della politica estera, la diplomazia è oggi diventata di pubblico dominio, chiamata al proscenio per svolgere una funzione più assertiva, di esplicita indicazione dello stato dei rapporti internazionali, alla cui risistemazione è poi chiamata a provvedere in separata sede.
Il richiamo del suo rappresentante diplomatico a Washington non solleva l’occupante del Cremlino dal dilemma di come ristabilire un rapporto funzionale con l’antica rivale superpotenza, dal quale dipende la ridefinizione di quella russa. Tanto più che, nelle priorità di Biden, sulla Russia prevale una Cina che continua a smentire nei fatti quel multilateralismo che continua ad ostentare. Con ambedue, si tratta di ammonire, fissare un dialogo strategico, fare il punto.
Fintanto che Russia e Cina, invece di contestarlo, non dimostreranno nei fatti di volersi assumere le responsabilità che loro competono quali membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, tanto la nuova Via della Seta cinese quanto il Northstream russo, più che come linee di collegamento, si presentano come strumenti di infiltrazione e di condizionamento delle società aperte occidentali.
Rimettere ‘i puntini sulle i’ senza le abituali precauzioni diplomatiche serve pertanto ad attirare l’attenzione dei loro interlocutori, tanto esterni quanto interni.
La questione della reintegrazione di Russia e Cina nel novero delle nazioni responsabili rappresenterà pertanto l’essenza della prossima riunione del G20, affidata quest’anno all’Italia.