Ma che ci faceva Luca in Congo?

di 25 Febbraio 2021

Ma che ci faceva Luca Attanasio in Congo?

E soprattutto cosa ci facciamo ancora in Africa, mezzo secolo dopo la decolonizzazione? Ci stiamo tuttora stracciando le vesti, per le pretese malefatte del colonialismo, senza riuscire a stabilire cosa ci stiamo ancora a fare.

Lasciando nell’indifferenza politica la presenza, qua e là, di nostri uomini d’affari interessati a ricavarne le risorse del sottosuolo, e dei missionari cattolici dediti alla cura delle anime. Fattori di stimolo ambedue, sia pur diversi, della riscossa di un continente rimasto ai margini della globalizzazione. Nel quale la Cina, con la proditorietà della sua ‘cintura’, e la Russia, con l’inserimento dei suoi mercenari, vanno instaurando un neo-colonialismo di ben diversa fattura.

Nell’Africa sub-sahariana, né noi a livello nazionale, né la Comunità europea che tanto si è prodigata in passato (con i programmi di assistenza impostati a Yaoundé, a Lomé, infine a Cotonou), né la Francofonia o quel che resta del Commonwealth, possono certo competere con i nuovi colonizzatori, indifferenti alle condizionalità, in termini di buon governo, che l’Unione europea impone ai suoi interlocutori. Argomentando che non più di assistenza, bensì di cointeressenza si dovrebbe trattare. 

Nel Sahel e nel Corno d’Africa si aggiunge l’esigenza di assicurarvi la presenza di nostre forze armate per debellare le bande armate che continuano a destabilizzare quelle nazioni. In Nordafrica poi, che dell’Unione Africana fa parte, dopo il fallimento delle ‘primavere arabe’, ci troviamo ridotti a subire i massicci flussi migratori. 

La Strategia comune concordata nel 2007 fra l’Unione europea e l’Unione africana soffre dell’assenza di un reale comune denominatore politico e economico a livello continentale. Se l’Europa risponde alle sollecitazioni della sua eredità coloniale, l’America, dopo aver contribuito al processo di decolonizzazione, in altre faccende affaccendata, se ne è poi tenuta in disparte.

Non si tratta ora soltanto di prosciugare la corruzione endemica che continua a minare quelle società, bensì di instaurare, a monte, condizioni di bon governo fra popolazioni che non hanno mai conosciuto una qualche organizzazione statuale. Per reinserirle nella comunità delle nazioni operanti in condizioni di globalizzazione.

Purché, ovviamente, una comunità delle nazioni riesca ad emergere dal disfacimento della contrapposizione bipolare, secondo i principi della Carta delle Nazioni Unite. Che è invece quel che fa ancora difetto, per la riluttanza di alcuni fra i ‘grandi’ ad accettarne le regole e procedure comuni. E, come dice un detto locale, quando gli elefanti si combattono, ne va di mezzo la savana.

La premessa è quindi la ricomposizione di quel sistema internazionale multilaterale che l’Occidente, con il necessario concorso dell’Europa, ha evocato e continua ad invocare.

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