Luca,
non ci siamo conosciuti, giovane com’eri, io oltre il termine e tu all’inizio della nostra ‘carriera’, ma già tanto intriso dei compiti che la nostra professione comporta.
Sconosciuta ai più, irrisa nelle sue manifestazioni più appariscenti, lustrini e champagne. Quotidianamente impegnata invece, dietro le quinte, per far valere le ragioni di una umanità più partecipe, più solidale, che tanti autocrati e guerriglieri continuano ad ostacolare.
Una vocazione, una missione, la nostra, non un mestiere o una mera burocrazia. “Alto senso del dovere” si registra nel fascicolo personale dei suoi migliori rappresentanti. Una qualità che si esprime sul campo, piuttosto che nelle cosiddette ‘stanze del potere’, a Roma. Un impegno personale, totalizzante, non diverso da quello dei componenti delle forze armate, uno dei quali ti ha accompagnato fino all’estremo sacrificio di sé.
Spiace quindi che la realtà dell’impegno dell’Italia all’estero, lontano dai riflettori, debba emergere soltanto nelle circostanze più tragiche. A Kivu, a Nassiriya, e ora a Goma. Il tuo nome, Luca, va ad aggiungersi a quello del collega americano Christopher Stephens, ucciso a Bengasi nove anni fa. Ci metteva anche lui ‘del suo’, ben oltre i doveri ufficiali che gli erano stati affidati.
Anche lui come te, nel personale impegno per riabilitare delle nazioni sconvolte, non come si dice dalla colonizzazione, bensì semmai da una decolonizzazione affrettata, sotto il pungolo della Guerra fredda. La cui condizione continua a lasciare indifferenti i nuovi autoproclamatisi ‘grandi’ di questa terra, che si dedicano, loro sì, a saccheggiarli invece di assisterne il riscatto economico e sociale.
Più di altri, l’Italia ha in proposito le carte in regola. Se soltanto riuscisse a valorizzarle, invece di affidarle alla solitaria devozione di alcuni suoi servitori.
È l’esempio della nostra coscienza, Luca, che nobilita la nostra professione. È il ricordo che lasciamo di noi che perdura ben oltre la nostra esistenza terrena.