Se il problema della scuola sono i “voti” ai professori

di 15 Febbraio 2021

A nuovo governo vecchie richieste, si potrebbe dire leggendo il commento che Tito Boeri e Roberto Perotti dedicano alla “questione scuola” su Repubblica di domenica 14 febbraio. E anche trascurando la non trascurabile circostanza che nel titolo dell’articolo si parli di “voto agli insegnanti” mentre nel testo il problema sia piuttosto quello, abbastanza diverso, della valutazione delle scuole, qualcosa su cui riflettere rimane. 

Scrivono Boeri e Perotti: “Come tutti i genitori e gli alunni sanno bene, avere un bravo insegnante cambia la vita. Nei paesi nordici, dove il sistema educativo funziona meglio, i salari di ingresso non sono solo molto alti, ma la progressione salariale di chi insegna bene è importante. C’è un riconoscimento sociale del ruolo dell’insegnante proprio perché quelli bravi vengono premiati.

Anche in Italia tutti a parole vogliono un po’ di meritocrazia, per premiare i tanti insegnanti bravi e anche per incentivare la presenza nelle zone a forte disagio sociale. Ma l’unico modo per fare tutto questo è introdurre la valutazione. D’altra parte, non si può lasciare la valutazione degli insegnanti all’arbitrio dei genitori e tanto meno degli studenti. Per questo è importante valutare le scuole (piuttosto che i singoli docenti), anche per individuare le aree di intervento. Per valutare le scuole è necessario ancora una volta valutare le performance degli studenti, stando attenti ovviamente a isolare il ruolo dell’ambiente: una cattiva performance degli studenti potrebbe essere dovuta alla situazione ambientale anche se gli insegnanti sono bravissimi. Ma questo problema può essere affrontato, e anche se non è una scienza esatta, una valutazione buona ma necessariamente imperfetta è meglio di nessuna valutazione. Da noi invece prevale una fondamentale incomprensione e opposizione a priori, sia dei docenti che dei genitori che degli studenti, verso i test Pisa e soprattutto le prove Invalsi, anche se vengono usati solo per raccogliere informazioni”. 

Trascureremo anche l’altra non trascurabile circostanza che non si capisce perché le scuole dovrebbero essere valutate e gli ospedali no e i tribunali nemmeno e gli uffici dell’amministrazione finanziaria neppure a parlarne, tanto per dire di altri snodi non certo meno importanti della vita pubblica (è un problema soltanto della scuola o dell’intero sistema pubblico italiano?),

né ci soffermeremo più di tanto sulle modalità argomentative utilizzate dai due commentatori, che muovono dall’assunto che i singoli più meritevoli debbano essere premiati per focalizzare poi la loro tesi non più sui singoli bensì sulla scuole, senza ulteriormente argomentare su come si faccia, una volta valutate le scuole, a premiare i singoli meritevoli, ma ci limiteremo a poche domande. 

La prima delle quali avrebbe l’ambizione di “esortare alle storie”, per chiedersi come mai quando si è provato a introdurre meccanismi premiali (lo fece una prima volta Luigi Berlinguer e successivamente, con la “buona scuola”, Matteo Renzi) tali tentativi si siano, per quanto diversamente, impantanati? Soltanto per riflessi corporativi o per rifiuto della valutazione?

E sul sistema di valutazione delle scuole che, pur facendo fatica ad affermarsi, è tuttavia avviato, nulla da dire, visto che a leggere l’articolo non si trova cenno e tutto sembra impaludato in una morta gora? Almeno riconoscere che, tra RAV (Rapporto di autovalutazione) e PDM (Piano di miglioramento), un processo è in atto (con tutte le difficoltà delle cose nuove), che qualcosa si muove, che le scuole non sono quelle sacche di resistenza tetragone a qualsiasi forma di mutamento che spesso si vuol fare apparire? E per entrare nel merito della valutazione degli studenti, per come si ricava nel testo del duo Boeri-Perotti: valutare significa soltanto valutare “performance” (termine che ricorre in pochi righi ben due volte), guardare esclusivamente al risultato in sé? O c’è pure dell’altro, se la scuola è scuola e se l’apprendimento, la crescita, la formazione non sono dei semplici prodotti? E siamo sicuri che i test PISA e le prove INVALSI, sui quali esiste ormai una serissima letteratura critica che riempie biblioteche, siano sottratti al beneficio del dubbio? Che non si possano esprimere perplessità, obiezioni, cautele, senza passare per avversari della valutazione? 

Non è che a furia di trasferire il linguaggio economicista nella pedagogia (che possiede un proprio e diverso ubi consistam) stiamo provando a dimenticare che la scuola ha a che fare con persone e con relazioni tra persone, con tutto quello che questo implica?  

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