C’era una volta il precettore. O tutore, o insegnante privato, o comunque si volesse chiamarlo: una figura addetta all’educazione e alla formazione dei giovani rampolli delle classi più elevate, fossero di estrazione nobiliare, o, più recentemente, semplicemente agiate. Una realtà archiviata dall’affermazione, nel secolo scorso, al diritto all’istruzione per tutti, e dalla realizzazione in larga parte del mondo di un sistema scolastico pubblico – sia statale che non, si badi bene.
Almeno fino all’esplosione della pandemia da coronavirus, che ha costretto in molti casi a sospendere le lezioni scolastiche in presenza, sostituendole ove possibile con la cosiddetta didattica a distanza. Ove possibile: perchè strumenti e dotazioni, al contrario delle infrastrutture scolastiche, non sono uniformemente distribuiti né altrettanto garantiti. In molti paesi, dove non esiste una copertura capillare di connessione a banda larga né una distribuzione sufficiente di dispositivi per assistere alle lezioni online, il problema è emerso in tutta la sua drammaticità (come in India). Ma anche nel nostro paese, che prevede il diritto all’istruzione in Costituzione e che può contare su una buona copertura sia in termini di connettività che di dispositivi, la situazione non è uniformemente ottimale, soprattutto nelle zone più disagiate – già di per sé le più a rischio di abbandono scolastico.
La dispersione scolastica non è l’unico rischio al quale la sospensione prolungata dell’interazione personale e la frammentazione della comunità di apprendimento espongono oggi gli studenti italiani. La qualità stessa dell’apprendimento rischia di uscirne significativamente compromessa: e questo a prescindere dalla qualità e quantità degli sforzi per assicurare la continuità della didattica.
Ma la didattica, soprattutto nella sua traduzione forzata e impropria da frontale a online, è solo una parte del processo di apprendimento, che presuppone appunto una comunità e delle interazioni costanti. Le conseguenze psicologiche, sociali e civili paventate da esperti di calibro sono devastanti, come del resto già denunciato in altri paesi europei, che sulla scorta di queste considerazioni hanno notevolmente ridotto, rispetto al nostro paese, i tempi di chiusura delle aule fisiche.
Al contrario, l’Italia è stato uno dei paesi in cui le lezioni in presenza sono state sospese prima e più a lungo, a prescindere da qualsiasi valutazione scientificamente fondata sulla reale incidenza della presenza a scuola rispetto al numero dei contagi.
Al momento di decidere per il ritorno in aula, abbiamo visto portare i più svariati argomenti – non solo di tipo sanitario – per sostenere la necessità di una dilazione, o addirittura della rinuncia alla riapertura. Ed è singolare che tra chi magnifica le virtù della didattica a distanza (magari scoperta pochi mesi prima), o vanta le innovazioni conseguite nell’apprendimento (naturalmente dal punto di vista di chi insegna, non di chi apprende), o ancora sottolinea la ghiotta occasione per diffondere tra i discenti le competenze digitali (salvo difettarne a propria volta), ci siano gli stessi che solo pochi anni fa si erano stracciati le vesti nelle piazze per ribadire il diritto alla scuola pubblica, di massa, per tutti. Sì, perché la più robusta opposizione alla ripresa delle lezioni in presenza viene dagli insegnanti, per il 70% dei quali bisognerebbe tornare in aula solo a virus debellato. Le posizioni dei più agguerriti avversari del rientro sono espresse oggi per voce degli stessi sindacati che guidavano allora le manifestazioni di prammatica: e il fil rouge che unisce ieri e oggi è la medesima difesa corporativa, a prescindere.
Alla data odierna non è chiaro se la scuola in presenza in Italia ricomincerà, e quando. Ma se i germi della presente situazione attecchissero, potremmo assistere a un’evoluzione che non potrebbe essere più diametralmente opposta a quella auspicata dai più fedeli seguaci di Don Milani; e che somiglia da vicino a quella già in atto nella formazione aziendale e professionale, in cui la massa dei discenti si ritrae progressivamente nell’apprendimento solitario attingendo a cataloghi di lezioni online, verticali sulle tecniche e gli argomenti ma generaliste per presupposti e metodologia, mentre la progettazione personalizzata e la sessione didattica a tu per tu con un coach dedicato diventano sempre più appannaggio esclusivo del top management. Com’è facile intuire, gli effetti su una popolazione scolastica come quella della fascia dell’obbligo, strutturalmente meno matura e autonoma dell’apprendimento, potrebbero essere molto più pesanti.
Se la scuola in presenza non viene assunta immediatamente come priorità nazionale, dichiarata rischio accettabile – a prescindere dal livello dei contagi – a fronte di un’alternativa che coincide con un certo e inaccettabile danno futuro, l’istruzione obbligatoria potrebbe ridiventare un lusso per pochi: i pochi che potranno permettersi di iscrivere i figli in una scuola all’estero, ancora aperta a differenza di quelle nazionali, o di integrare la didattica a distanza con lezioni private dal vivo, anche di gruppo, che restano perfettamente compatibili con le norme vigenti. Per tutti gli altri, non resta che il francobollo video, con tutte le sperimentazioni annesse e connesse: ma la scuola (di massa) è finita.