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La diplomazia in America
“America is back –ha annunciato il neo-Presidente americano- siamo pronti a riprendere l’iniziativa, non a ritirarci!”. Dopo la lunga, assurda, divagazione trumpiana, la Storia può rimettersi in carreggiata. Sappiamo già che alla paziente opera della diplomazia Biden affiderà il compito di rimediare ai tanti danni fatti dall’estemporaneità del suo predecessore.
Il cambiamento di rotta non sarà istantaneo, ma potrà prescindere dalle distrazioni di politica interna che per un quadriennio hanno caratterizzato la presidenza di una nazione che, in questo dopoguerra, si è collocata alla testa del mondo libero, di quell’Occidente che del liberalismo internazionale ha fatto la propria bandiera. Che dovrà però ora affidarsi all’opera ‘soft’ della diplomazia piuttosto che a quella ‘hard’ di un’anacronistica assertività unilaterale.
Il multilateralismo, ha detto Biden, tornerà ad essere la stella polare, quella che l’America, ha seguìto nel pluriennale suo percorso di politica estera, avvalendosi di una struttura diplomatica rigenerata, che l’amministrazione Trump ha sconsideratamente decimato e marginalizzato. Affidandola non più ad un politico di lungo corso come lo furono Hillary Clinton o John Kerry con Obama, bensì ad un funzionario giovane ma esperto. Che, dai tempi di Clinton, è stato coinvolto nell’impostazione dei rapporti internazionali alla Casa Bianca, al Dipartimento di Stato e infine a fianco di Biden Vice Presidente.
Antony Blinken, mi scrive un amico americano, è “persona pragmatica, per bene, e senza ambizioni politiche personali: perfetto per un tentativo di ritorno alla normalità”. Con il vantaggio di aver beneficiato all’estero della prima parte della sua educazione: qualità non trascurabile per chi all’estero dovrà rivolgersi. Convinto della necessità di avvalersi di coalizioni e di utilizzare le organizzazioni internazionali. Giacché “il mondo non si ordina spontaneamente”, –dice- si tratta di “mobilitare gli altri a reagire e di utilizzare la leva delle alleanze per produrre i cambiamenti necessari”.
Non di confrontarsi, di escludere, bensì di includere, coinvolgere, nella composizione dei diversi, non necessariamente contrastanti, specifici interessi di ognuno. Compito eminente della diplomazia. Una diplomazia che, con Trump, ha potuto sperimentare come, senza l’America, il sistema internazionale non funziona. Che, in altre parole, l’America rimane di fatto l’indispensabile, per quanto ricorrentemente riluttante, elemento stabilizzante, catalizzatore, dell’intero sistema internazionale.
Una funzione che dovrà ora svolgere con una maggior iniezione del potere ‘soft’ che un secolo fa Teodoro Roosevelt raccomandava quale accessorio indispensabile di quello ‘hard’. Per aggregare quanti, anche al difuori della cerchia occidentale, sono animati dalle medesime intenzioni. Molte questioni sono rimaste in sospeso, le solite, evidenziate dalla gestione Trump ma rimaste irrisolte: da affrontare con la Cina, la Russia, in Medioriente, Iran, Turchia, Balcani, Caucaso, Nord Corea, oltre che multilateralmente su clima, salute, migrazioni e disarmo.
L’Europa da sola, lo sappiamo, non va da nessuna parte; agli antipodi, Australia e Nuova Zelanda devono controbilanciare l’assertività cinese nel Pacifico; in Estremo oriente, Giappone, Corea del Nord, le stesse Filippine non possono far a meno delle rassicurazioni americane; l’America Latina andrà sollecitata a dotarsi di una politica sub-regionale meglio articolata; e il Medioriente ad evitare di sprofondare nel suo eterno tribalismo.
Sull’Europa in particolare grava il compito di sostenere ed assistere il nuovo corso americano. Accantonando le nostre infondate e sterili polemiche sulla presunta rapacità di Macron o sulla sua rivalità con la Merkel, che trascurano la necessità, soprattutto per un’Italia che non ne ha la minima cognizione, di esercitare una propria specifica, operante funzione internazionale.
Come dimostrano concretamente, se non altro, le urgenti sollecitazioni che le provengono dalla Libia e dall’Iran.