Rimaniamo ancora col fiato sospeso, al cospetto di un risultato elettorale ambiguo, poco indicativo del percorso sul quale si avvierà l’America. Ce ne dovremmo preoccupare tutti, grandi e piccoli, condizionati come siamo stati tanto a lungo dalla nazione che, nel bene e nel male, si è per un intero secolo rivelata il perno del sistema internazionale. Il ‘secolo americano’, appunto, che si è improvvisamente esaurito.
Un’America che, non dimentichiamolo, è stata egemone riluttante, che nella proiezione esterna aveva trovato la sua vocazione, il coagulo di una nazione plurima, federale. Ma che si è rattrappita, che, dal crogiuolo delle origini, si scopre oggi a macchie di leopardo. Che, dal rifiuto delle distinzioni ideologiche, si trova inaspettatamente spaccata in due. Che dovrà pertanto ora dedicarsi ad una introspezione della sua specifica identità e dei suoi interessi concreti, nel mondo multilateralizzato di cui è stata l’artefice.
Nella mutazione internazionale e interna della quale lo stesso Obama, nato in mezzo al Pacifico e cresciuto all’estero, si era dimostrato consapevole, tentando di rimediarvi con i suoi “Yes we can!” e “Change”. Suscitando invece l’immediato risentimento dei conservatori, fra i quali il Grand Old Party di Lincoln si è rassegnato a sprofondare, in un’inversione dei ruoli con il Partito Democratico. Sottomettendosi ad un imbonitore che dei ‘tweet’ e dei ‘fatti alternativi’ ha fatto il suo megafono personale per avvalersi dei ‘suprematisti bianchi’, nostalgici delle origini di una società che ha gradualmente alterato i suoi connotati, ben oltre l’irrisolta questione razzista.
Non sarà facile ricomporre quella politica ‘bipartisan’ che ha sempre distinto il Nuovo dal Vecchio mondo. In un mondo diventato ancor più nuovo, pervaso dalle ripercussioni di una globalizzazione che, anche in America, ha esasperato la distinzione fra città e campagna. Biden dovrà ora occuparsi della classe media che Trump aveva dichiarato ‘forgotten’ per poi limitarsi ad aizzarla, sfruttandone le frustrazioni. Aumentando a suo beneficio la spesa pubblica, per finanziare infrastrutture, sanità, scuola.
“A house divided against itself cannot stand”, aveva ammonito Lincoln ai tempi della Guerra civile, nell’appellarsi ai “better angels of our nature”. Al medesimo istinto, dopo la Grande crisi degli Anni Trenta, si rivolse lo stesso Franklin Roosevelt con il suo “New Deal”. Per leggere l’America odierna, invece che alla “Democrazia in America” di Tocqueville, bisognerà ricorrere il “Who are we?” di Samuel Huntington, e ai più recenti “Why we are polarized” di Ezra Klein, “American Nations” di Colin Woodward e “Hillbilly Elegy” di J.D. Vance.
Per ritrovarsi, e ridiventare veramente ‘Great Again’, l’America di Biden dovrà ricorrere anche ad una politica estera che recuperi le solidarietà necessarie ad uscire dai vicoli ciechi dell’isolazionismo politico e protezionismo economico nei quali si è cacciato il suo predecessore. La lunga esperienza di chi, oltre che Vice Presidente, è stato a lungo a capo della Commissione Affari Esteri del Senato, dovrebbe poter rimediare agli sbandamenti di quest’ultimo quadriennio.
Un periodo impegnativo si annuncia pertanto per l’Europa; a maggior ragione per un’Italia sempre più confusamente introversa.
Piero Fassino, Presidente delle Commissione esteri della Camera dei Deputati, si è espresso nei seguenti termini: “Si apre una nuova pagina per gli Stati Uniti e per il mondo. Quattro anni di Trump hanno lacerato profondamente la società americana e dissestato l’ordine internazionale. Joe Biden e Kamala Harris sono dunque chiamati a un’opera di ricostruzione: restituire coesione e giustizia ad un’America divisa e ferita; ricostruire una solida cooperazione tra USA e Europa; rilanciare una governabilità multilaterale del mondo; recuperare un sentimento di fiducia e di simpatia verso gli Stati Uniti. Compiti non facili che richiederanno visione, determinazione pazienza. Doti che Joe Biden e Kamala Harris hanno dimostrato di avere e che varranno loro il sostegno di tutti i democratici del mondo”.
Non c’è molto da aggiungere. Semmai da fare per collocarci nei presumibili nuovi schieramenti internazionali.