Dell’esito e possibili ripercussioni delle elezioni presidenziali americane è stato detto tutto quello che c’era da dire. Soprattutto che l’introversione della nazione che ha marchiato di sé l’intero secolo scorso continuerà, non soltanto per il prevedibile perdurare dell’ostruzionismo dei sostenitori di Trump.
Ne risulta la conferma della necessità che l’Europa recuperi la sua storica funzione di produttore piuttosto che di consumatore della Storia, quale è stata troppo a lungo in questo intero dopoguerra. A beneficio di una ricomposizione dello schieramento occidentale, nella protezione e promozione del sistema internazionale liberale iscritto dalla Carta delle Nazioni Unite.
La specifico ‘potere soffice’, non contundente, che distingue l’Europa può infatti contribuire ad aggregare i tanti Stati animati dalle medesime intenzioni, dal Giappone all’Australia all’India, che il ritrarsi degli Stati Uniti e la riemersione di regimi autoritari rischiano di relegare ai margini dell’imperante globalizzazione. Esponendo di riflesso l’assertività di coloro, come Russia, Turchia e Cina, che ritengono di poter tornare ad avvalersi di anacronistici equilibri di potenza.
II contributo europeo dovrebbe ormai rivelarsi essenziale per la stessa America di Biden, nella complementarietà dei rispettivi ruoli, per ristabilire i contatti con la Russia, la Cina, l’Iran, la Turchia, il Medioriente.
L’accordo raggiunto sulla questione del Nagorno-Karabakh non è che la più recente dimostrazione delle disconnessioni che caratterizzano lo stato del mondo. Una soluzione imposta dalla Russia, dalla quale peraltro dipende, da sempre, la soluzione delle ‘crisi congelate’ lungo l’intero arco della cintura di instabilità che, dalla Bielorussia all’Azerbaigian, appunto, continua a separare un’Europa allargata da una Russia ritrattasi.
(Vi è chi sostiene trattarsi di un fallimento delle diplomazie americana ed europea, sterilmente associate a quella russa nel cosiddetto ‘gruppo di Minsk’. Un gruppo che aveva semmai lo scopo di assicurare il contatto con Mosca, che rivendica il predominio su quel che definisce il suo ‘estero vicino’, accontentatasi però sinora di mantenere instabile, in ostaggio).
Parimenti può dirsi dell’opportunità che la Cina renda conto del suo comportamento arrogante nei confronti di Hong Kong, degli isolotti nel Mar Cinese Meridionale, di Taiwan, delle minoranze in Tibet e Xinjan, in violazione delle norme internazionali generali o convenzionali; nonché della sua penetrazione politico-economica neo-coloniale in Africa e insinuantemente tecnologica in Occidente.
Senza trascurare il Medioriente, per pacificare la Siria e restituire l’Iran alle equazioni mediorientali stravolte dalla preminenza accordata a suo danno all’Arabia Saudita; né l’Africa subsahariana, di storica responsabilità europea, turbato da ricorrenti ribellioni, persino nell’Etiopia premiata un anno fa dal Nobel per la pace, e sede dell’Unione Africana.
Luoghi tutti dove, come già disse apertamente Obama, l’America non intende continuare a disperdere le proprie energie, mentre le ostentazioni di forza sono destinate a non conseguire più che effimeri, circoscritti risultati. Operazioni tutte che dovrebbero far acquisire all’Europa unita una credibilità internazionale, a vantaggio degli stessi Stati Uniti avviati alla riscoperta di se stessi.