Di montagne, contrabbando e fili a sbalzo

di 12 Ottobre 2020

Di mio zio Beato che si chiamava Beato la mamma diceva che era uno scherzo del destino. Perché beato proprio non lo era. In quegli anni passava le giornate col binocolo in mano a controllare giù in valle e delle volte non gli si poteva neanche parlare tanto il nervoso che c’aveva addosso. Se dicevi la parola Guardia Elvetica o Finanza saltava per aria.

Avevamo dei gatti per cacciare i topi dal fienile. Da qualche tempo erano spariti. Prima uno, poi gli altri. Ed eravamo finiti per essere pieni di topi. Lo zio Beato diceva che ce li avevano rubati da far là con la polenta, e la mamma gli diceva che pensare male è peccato, e lui ribatteva dicendo che però a pensare male spesso ci si azzecca. E poi la zia Germana diceva che ne dovevamo prendere altri e papà ribatteva che in quei tempi di miseria ormai di gatti non se ne trovavano più. Merce rara, diceva.

Nel fienile c’erano accatastate tante di quelle balle di fieno fatte strette con lo spago che non ci si entrava. Una mattina, papà e lo zio Beato ne tolsero la metà per cercarne alcune. Ecco, son queste dieci, aveva detto papà, poi aveva imprecato. Topi topi topi. Erano piene di buchi. Controlliamo, avevano detto. Io le apro, tu fa la guardia, aveva detto papà e lo zio aveva preso il binocolo.

Papà le aveva aperte una a una e per dieci volte aveva bestemmiato. Maledetti topi, aveva gridato. Poi, io e mio cugino avevamo passato tutto il giorno a dividere le cacchette dei topi dai chicchi di riso. Nere le une, bianchi gli altri. Di topi nemmeno l’ombra. Dileguati. Son più furbi del diavolo, aveva detto la zia Germana.

Mio cugino non la smetteva un secondo di parlare. La mamma diceva che aveva preso dalla zia Germana. Per un po’ gli avevo dato retta, poi le sue parole avevano iniziato a entrarmi dalla sinistra e uscirmi dalla destra. Tanto quel che diceva era sempre la solita solfa. Storie sui partigiani che aveva sentito dai grandi quelle volte che era stato al bar giù in valle.

Ogni tanto gli dicevo di parlare di meno e di fare più attenzione e più veloce con ‘ste cacchette, che non vedevo l’ora di ritornare al torrente a rifare la diga. Aveva fatto temprali e l’acqua grossa ce l’aveva spazzata via. Ma mio cugino lavorava sbadato e capitava che si lasciava sfuggire una qualche cacchetta e io dovevo stare attento anche al suo lavoro.

Papà e lo zio Beato ci avevano detto di fare un bel lavoro preciso che quei sacchi dovevano andare all’Hotel Excelsior di Zurigo, e che se trovavano dentro anche solo una cacchetta di topo poi si sarebbero rivolti altrove e allora ciao soldini. Avevano poi rifatto le balle di fieno che non si vedeva neanche che dentro ognuna c’era un sacco di riso, e le avevano mandate giù a valle col filo a sbalzo all’orario preciso che sapevano solo loro.

I nostri genitori ci lasciavano giocare col filo a sbalzo soltanto giù in fondo quando scendevamo in valle. Portavamo giù il nostro formaggio e poi si tornava su con gli zaini pieni di farina e uova e bottiglie di vino e tutto il ben di Dio che si riusciva a trovare. Delle volte poca roba, altre volte ci andava meglio. Ma poi che faticaccia a tornare su ai monti… Però almeno giù in fondo giocavamo un po’ assieme ai bambini del paese e non era pericoloso perché non si prendeva troppa velocità. E prima di schiantarci contro il copertone ci lasciavamo cadere sul prato dove il filo passava per una cinquantina di metri a solo un metro e mezzo che si dovevano piegare le ginocchia e quasi sempre non ci facevamo niente. Solo una volta io mi ero quasi rotto un polso ma alla fine papà aveva detto che era solo una slogatura.

Una notte ne avevano mandate giù quindici. Eravamo già a letto che era arrivato uno a bussare alla porta. Lo zio Beato e il papà erano schizzati in piedi con in mano la doppietta. Dormivano con le doppiette cariche da parte al letto. Era il Pela col fiato corto. Chissà come e chissà perché, due balle di fieno non erano arrivate giù a valle.

Avevano discusso animatamente. Si trattava di andare a cercarle prima che finivano in mano alle Guardie Elvetiche. Erano partiti subito. Papà e lo zio Beato e il Pela. Tutti e tre armati. Papà ci aveva poi raccontato che le avevano trovate ancora intatte dentro le ginestre, erano riusciti ad agganciarle al filo e a mandarle a valle. Faccenda chiusa. Adesso a letto, aveva detto. E le guardie? aveva chiesto la mamma. Neanche l’ombra, aveva detto lo zio Beato.

Fuori s’era fatto buio e al torrente non avevamo fatto in tempo ad andare anche perché avevamo dato una mano a mungere le vacche. Ne avevamo sei o setto. Non ricordo. Eravamo davanti al camino acceso. La mamma e la zia Germana cucinavano e io sentivo ancora i chicchi di riso e le cacchette di topo scivolarmi fra le dita. Ne avevamo tirate fuori una scodella. Millecento e dodici. Le avevamo contate due volte perché la prima lo zio Beato ci aveva fatto perdere il conto. Lo zio Beato aveva poi preso la scodella e le aveva buttate nel fuoco. Guarda come brucian bene, aveva detto. Fanno le scintille.

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