Il monastero europeo

di 19 Settembre 2020

Inopinatamente, la teoria del ‘conflitto di civiltà’, tanto deprecata al suo apparire trent’anni fa, è tornata in auge. E dire che qualcuno aveva allora annunciato la ‘fine della Storia’, ripropostasi invece con il ritorno dei nazionalismi.

Nell’affermazione che le convinzioni su cui si fonda il sistema internazionale costruito dall’Occidente sono incompatibili con le mentalità e le tradizioni di popolazioni in altre latitudini. Che, in altre parole, l’Illuminismo cosmopolita e universalista che ha spazzato via l’assolutismo, affermando la prevalenza dell’individuo sulla collettività, non sia accettabile in società nelle quali vige il rapporto inverso: nell’Oriente asiatico, nel Medioriente arabo, persino nel nostro più vicino oriente di fede ortodossa.

Ne fanno le spese i meccanismi delle Nazioni Unite, per la paralisi del Consiglio di Sicurezza e la passività di un ‘Terzo mondo’ inerte. Lo dichiarano apertamente la Russia e, più subdolamente, la Cina. L’America trumpiana se ne disinteressa. Ad incarnare i principi della Carta non rimane che l’Unione europea, unico residuo attore internazionale intrinsecamente, costituzionalmente, multilaterale.

L’Unione ha appena affrontato la Cina in un Vertice ‘in remoto’, più volte rinviato, nel corso del quale gli è stato significato, per bocca della Presidente di turno Merkel, che “i nostri sistemi sono diversi, ma ogni collaborazione deve rispettare i principi del multilateralismo e fondarsi su regole condivise”. Alla richiesta di Bruxelles di procedere ad un’inchiesta sull’ennesimo avvelenamento di un oppositore, Mosca ha risposto accusando l’Europa di aver “oltrepassato ogni limite di decenza e buon senso”. Non di soli Hong Kong e Bielorussia si tratta.

L’intero Medioriente continua ad attendere di essere accudito da cure internazionali convergenti. Gli osannati ‘accordi di Abramo’ fra Israele e gli Emirati si risolvono di fatto nell’abbandono della causa palestinese, nella demonizzazione dell’Iran e nell’ostracismo della Turchia (con il Qatar). La loro estromissione dalle equazioni strategiche nel ‘Grande Medioriente’ lascia irrisolti i tanti altri nodi gordiani regionali.

Con l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti dietro le quinte, con la Russia e la Cina accovacciate sulla riva del ‘mare nostro’, l’Europa,  nel suo sempre funambolico equilibrio fra cosmopolitismo ideale e relativismo pragmatico, non può far altro che rimanere attestata sulle ragioni della propria impresa. Palesemente emarginata nella contesa fra i presunti ‘grandi’, l’Unione europea rimane l’unico imperterrito attore multilaterale, custode delle ragioni che presidiarono alla costituzione delle Nazioni Unite. Una funzione non dissimile da quella dei monaci durante i ‘secoli bui’.

Per ricostruire una qualche governabilità dei rapporti internazionali, è nell’alveo del ‘modello occidentale’ che dovremo tutti, prima o poi, deciderci a tornare. Non vi po’ essere un piano B. Nell’auspicabile consapevolezza che, se ognuno si barrica, nessuno è al sicuro; e che il ‘potere soffice’ europeo è meglio adatto ad attutire uno ‘scontro di civiltà’. Quale punto di attrazione di un rinnovato G20, fra nazioni che non hanno alcun interesse a lasciarsi trascinare in una seconda, molteplice, Guerra fredda. 

“Un’Unione vitale in un mondo fragile” è lo slogan molto pertinente che, invocando Sakharov, la Presidente Von der Leyden ha utilizzato nel suo discorso di ieri sullo ‘stato dell’Unione’. Senza lesinare critiche alla Cina, alla Russia, alla Turchia. Esortando l’America e la Gran Bretagna a fare meglio. “Dobbiamo –ha insistito- rivitalizzare il sistema internazionale … che le principali potenze stanno abbandonando o prendendo in ostaggio”. 

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