Giano bifronte, la globalizzazione ha finito col suscitare tanto l’arroccarsi dei nazionalisti nel ‘mondo libero’, quanto le ribellioni popolari nei regimi autoritari. Da Beirut a Hong Kong, da Bamako a Bangkok, e ora a Minsk, le piazze esprimono le condivise aspirazioni dell’umanità, che rivendicano maggiore dignità personale e benessere sociale.
Gli autocrati incolpano invece le interferenze esterne, non impropriamente. Non di inammissibili trame di governi stranieri però si tratta, bensì dell’inarrestabile spontaneo diffondersi dell’anelito alla democrazia che, dalle rivoluzioni americana e francese, attraverso l’intero Ottocento, da Wilson a Roosevelt, dal Sessantotto a Walesa, e ora con la rivoluzione nelle comunicazioni, va ormai espandendosi a macchia d’olio. Nella spontanea contaminazione in provenienza da società estranee ai costumi locali. In quell’inarrestabile esportazione della democrazia che tanti criticano, appunto, come interferenza esterna.
A Mosca come a Pechino e nel Mondo arabo le autorità, in sostituzione dell’antica scelta di campo fra le ormai consunte formule ideologiche, invocano un preteso ‘conflitto di civiltà’. Le folle, però, piuttosto che un’astratta libertà di espressione, invocano risultati socio-economici concreti. La pandemia pare aver concorso a concentrare l’attenzione sugli ingredienti essenziali della convivenza umana, temperando le pretese di un astratto populismo.
Un flusso vitale coinvolge, sia pur diversamente, le varie civiltà. Le ribellioni avvengono infatti tanto contro i regimi autoritari quanto contro le élite nel capitalismo. Un’esigenza che, da noi, si comprime nell’invocazione dell’’uomo forte’, mentre altrove, all’opposto, si traduce nella pretesa di una maggior inclusione civica in cui, sostanzialmente, consiste la democrazia. Nell’imperante transizione dalla ‘polis’ alla ‘cosmopolis’.
L’altra faccia della medaglia è però che l’evoluzione dei rapporti internazionali è sfuggita alla capacità dei governi di controllarli e indirizzarli utilmente, nel persistere dell’eterno instabile equilibrio fra libertà e sicurezza. Gli eventi internazionali che vanno affastellandosi dovrebbero dimostrare quanto la diplomazia debba riappropriarsi delle proprie prerogative: quelle destinate, in ogni situazione di crisi, a raccogliere gli interlocutori necessari attorno allo stesso tavolo. Nella riaffermazione delle ragioni del multilateralismo collaborativo rispetto ai tradizionali istinti difensivi, antagonistici.
Nella consapevolezza che la ‘psicologia delle masse’, descritta un secolo fa da Gustave Le Bon, non può rinchiudere la politica nell’affermazione dell’assoluto, che tante teste ha tagliato. Ma che oggi, meglio informata ed esausta, conserva l’essenziale funzione di sollecitare i governanti tutti a corrispondere alle sopravvenute, diverse, esigenze, nazionali ed internazionali.