In questo agosto 2020 è frequente, conversando, ascoltare o formulare la considerazione per la quale, dopo il lockdown, ci si senta molto stanchi, vuoi per l’intenso lavoro da remoto, vuoi per le preoccupazioni, vuoi per l’inattività forzata per alcuni; per tutti, però, la considerazione è la medesima: la cattività ha creato disagi, sofferenze, paure che si sente il bisogno di curare con la vacanza. È, quindi, singolare come, avendo fatto tutti l’esperienza della privazione della libertà, quasi nessuno volga lo sguardo alla situazione istituzionale di perdita della libertà: la reclusione in carcere.
Il problema non è piccolo, perché la nostra Costituzione – all’art. 27 – prevede espressamente che la funzione della pena – anche della pena detentiva – sia quella della risocializzazione. Abbiamo avvertito i danni psicologici della mancanza di socialità, la sofferenza, la stanchezza e anche qualche conseguenza fisica. Ma resta quasi del tutto assente la riflessione sulla situazione dei detenuti.
Non è un tema secondario, perché il nostro Paese, con la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (sez. X, Torreggiani e altri c. Italia, 3 gennaio 2013) è stato condannato perché il trattamento penitenziario italiano è stato espressamente considerato «inumano».
È noto e studiato come la reclusione determini varie patologie psicologiche. Intervengono all’ingresso in carcere, in un momento di vertigine nel quale tutta la propria vita si allontana da sé e viene chiusa fuori del portone della casa di reclusione; si perdono ruolo sociale, relazioni, privacy, capacità di determinarsi intorno a sé stessi, si viene separati dai figli e da chi si ama: ansia, perdita d’identità, disadattamento, autolesionismo, suicidio, inappetenza, disturbi dell’alimentazione o del sonno, sensazioni gravi di soffocamento, angoscia respiratoria, fame d’aria, e manifestazioni cardiovascolari con tachicardia, vertigini, svenimenti, stupore isterico, agitazione psicomotoria, crisi confusionali, rannicchiamento fetale, furore pantoclastico, disorientamento spazio-temporale, sono conseguenze frequenti e ben censite. Proseguono nel corso della vita in carcere: sono state riscontrate vere e proprie forme psicopatologiche e malattie fisiche, con sintomi caratteristici, che insorgono in individui in detenzione e che non si osservano in altri ambienti. Anche l’uscita dallo stato di detenzione presenta sindromi specifiche, che vanno dall’autolesionismo all’ansia, all’agitazione psichica e motoria, alla confusione sulla propria identità.
La nostra Costituzione prevede che la pena debba servire – unicamente – alla risocializzazione; lo stato del trattamento carcerario – nonostante l’impegno del volontariato e di molti operatori dell’amministrazione carceraria – resta «inumano». Noi ci preoccupiamo, giustamente, di usare le vacanze per recuperare la sofferenza della cattività. Ma non pare ci dia molta preoccupazione la situazione di chi in cattività resterà indipendentemente dalla pandemia, e la liberazione gli paia tutt’altro che una vacanza.