Non è scontato, ma in Italia sempre più dalle periferie parte la rivoluzione dell’Italia futura, perché i luoghi tenuti ai margini dai centri dello “sviluppo insostenibile” pretendono oggi di mettere sul campo del ripensamento dei paradigmi di sviluppo tutta la loro resilienza, innovazione sociale, creatività, chiedendo a gran voce di essere non solo ripensate e rammendate (termine non adeguato a mio parere), ma di essere protagonisti di un diverso sviluppo possibile.
Di fronte alla ricerca di una post-urbanità che caratterizza i tempi che viviamo, di una vita urbana meno frenetica e più protetta, per gestire il nuovo conflitto tra centri che si svuotano e periferie che si ripensano, non basta una manutenzione dell’ordinario, ma serve la rivoluzione del Neoantropocene. Serve percorrere un nuovo paradigma in cui “anthropos” sia la più alta espressione dell’essere umano, la nostra sensibilità e la nostra intelligenza, e non più la voracità e il consumo forsennato.
In Italia il Neoantropocene può trovare il suo campo di sperimentazione e le sue prime forme compiute rimediando ai centri storici in abbandono e rivitalizzando le grandi periferie figlie del modello urbanistico del Novecento che ne ha fortemente limitato lo sviluppo relegandole ai margini – spaziali e concettuali – dell’azione urbanistica.
Oggi, finito l’effetto dell’assenzio che è stata la crescita illimitata in debito e il vorace consumo di suolo, le periferie, sia esterne che interne (e le nostre città sono piene di “margini” in pieno centro), si ritrovano ad poter essere le protagoniste di un modello di città alimentato dall’interazione della resilienza, del riciclo e della riattivazione del capitale umano, e si offrono come prezioso laboratorio, non di un consolatorio rammendo, ma di una potente, dirompente, perturbatrice rigenerazione, urbana e umana insieme.
Da criticità urbane, portatrici di marginalità e generatrici di conflitti le periferie contemporanee si evolvono – per chi le sappia guardare con occhi nuovi – in componenti significative della metamorfosi delle città al tempo della crisi. Da aggregati di stigma e concentrati di pregiudizi, le periferie vedono fiorire nuovi soggetti attivi, sempre più giovani, che reclamano di rinegoziare le scelte localizzative delle nuove centralità culturali o sportive, che pretendono nuove infrastrutture di mobilità collettiva, o, ancora, che propongono la riconnessione dei reticoli paesaggistici periurbani come nuove infrastrutture sostenibili.
Disposte lungo una evidente dorsale che attraversa il paese, si moltiplicano le esperienze di resilienza e creatività nelle periferie, costituendo un atlante di luoghi, persone, modelli e prototipi che si compongono da nord a sud, dalle metropoli alle aree interne, come la scrittura collaborativa di un nuovo codice di sviluppo per le città del futuro.
Dalle esperienze pionieristiche di Farm Cultural Park a Favara dove, da dieci anni, in Sicilia l’innovazione sociale incontra il design attraversiamo l’Italia fino al Teatro di Ringhiera nella Milano che non vuole perdere la sue radici mentre protende verso l’alto le ali dei grattacieli. Dall’Ecomuseo del Mare di una Palermo che riscopre la sua dimensione liquida al Mare Culturale Urbano di Milano dove l’acqua è la creatività collaborativa che disseta la voglia di cambiamento. Dai nuovi metabolismi creativi del WOPA di Parma al riciclo produttivo dell’ex Fadda a San Vito dei Normanni, passando per lo Spazio Grisù di Ferrara, per la Caserma Archologica di Sansepolcro, per FOQUS nei Quartieri Spagnoli di Napoli, per l’Ecomuseo dei Cinque Sensi di Sciacca e per l’Ecomuseo Casilino di Roma e per altri mille punti su una mappa dell’Italia differente e resiliente.
Da eresie resistenti al paradigma modernista della città competitiva, le periferie sono ampie riserve di resilienza in cui possiamo ritrovare quei valori identitari insediativi, comunitari, paesaggistici da cui possono ripartire le città sfregiate dalla modernità imperfetta che ci ha attraversati insolente. Città che si mobilitano a partire dai margini per riattivare i capitali sociali, territoriali e culturali per guarire definitivamente dalla drammatica tossicodipendenza di una urbanistica “subprime” drogata di denaro, che ha anestetizzato la capacità di immaginare, di progettare e di radicare.
L’impegno nell’affrontare la questione della riqualificazione delle periferie – spaziali, sociali o economiche – trova quindi un nuovo impulso nel non limitarsi ad un loro recupero fisico, al risanamento ambientale o al miglioramento dell’accessibilità viaria, agendo invece sulla loro più complessiva capacità rigenerativa dei tessuti sociali e spaziali, economici e produttivi entro nuove visioni di città in metamorfosi che, ad esempio, riattivino il ruolo delle scuole come presidi di legalità e delle biblioteche come piazze della conoscenza, che recuperino con amore i frammenti di paesaggio agricolo, che riciclino la dismissione e che rottamino il degrado edilizio, che riportano la manifattura nei quartieri e il teatro torni a raccontare storie locali.
I grandi quartieri periferici degli anni Cinquanta e Sessanta nei capoluoghi, i centri storici in abbandono o i quartieri centrifugati dalla dispersione urbana delle città medie, i micro tessuti abitativi peri-urbani di derivazione rurale delle aree interne devono essere ripensati evitando ricuciture a freddo dei tessuti o desertificazione di abitanti, rifiutando un approccio chirurgico fatto di azioni estremamente invasive, erosive, consumatrici di risorse materiali e immateriali e soprattutto dagli esiti non definitivi e a rischio di rigetto.
Non sono più i tempi dello sventramento cosmetico, dell’innesto estetico, della demolizione e ricostruzione puramente volumetrica, ma non è più percorribile nemmeno l’urbanistica radioterapica prodotta dal bombardamento di risorse attraverso trasformazioni immobiliari di aree periferiche o innesti forzati di servizi di centralità e grandi centri commerciali, e nemmeno un consolatorio rammendo.
È più efficace – proseguendo nella metafora sanitaria – una urbanistica “staminale”, introducendo alcune cellule urbane di qualità, estratte dallo stesso tessuto identitario: agricoltura multifunzionale, scuole come servizi collettivi e presidi di cittadinanza, biblioteche come nuove piazze del sapere e spazi aggregativi dell’associazionismo, co-working, manifatture digitali ed atelier creativi, ma anche edifici intelligenti ed efficienti e mobilità sostenibile.
E non dimentichiamo, che le più potenti cellule staminali in grado di rigenerare il tessuto ferito delle periferie sono le donne e gli uomini che le abitano, le comunità attive e responsabili del “buon” antropocene.
Reimmaginare le periferie significa, quindi, non solo guardarle con occhi nuovi e progettarle con rinnovati strumenti, ma vuol dire anche ridefinirle epistemologicamente fin dal lessico. Non più “luoghi circostanti” rispetto ad una città centrale in cui sono concentrati tutti i valori, un intorno privo di identità, ma luoghi in sé, nuovi centri.
Ho proposto, da tempo, di chiamarle “poliferie” combinazione di pòli (molteplice) e phérein (portare), cioè luoghi plurali capaci di generare la nuova città policentrica. Ma le poliferie designano anche la combinazione di pólis (città) e phérein, cioè luoghi intensi capaci di generare nuove forme di città creative e intelligenti. Un nuovo nome che rigetti lo stigma e ribalti la visione, da luoghi problematici a luoghi fertili di opportunità.
Naturalmente non bastano un nuovo lemma e una visione seducente, indispensabile per non sbagliare la direzione, ma serve un’agenda di politiche e azioni, di collaborazioni e facilitazioni, di attori e agenti, perché le intenzioni si concretizzino nel diverso presente delle poliferie italiane… ma di questo vi parlerò la settimana prossima.