Non si è ancora placata l’indignazione per la trasformazione di Santa Sofia, monumento della Cristianità, in Moschea, che il neo-Sultano ha suscitato un altro terreno di confronto con il mondo esterno, tornando a pretendere l’estensione della propria Zona economica nell’Egeo. Le tante iniziative, velleitarie quanto dispersive, prese negli ultimi tempi da Ankara, rivelano una presunzione che la ha irrigidita sul piano interno e sovraesposta all’estero.
Da impero multietnico, a suo modo accogliente, a Giano bifronte, ponte fra occidente e oriente, la Turchia di Erdogan si rattrappisce nell’esaltazione di una propria specifica identità. Nell’affermazione di un unilateralismo assertivo che contraddice l’esempio di laicità e di equilibrato buon vicinato che aveva esibito durante le ’’primavere arabe’.
Il suo esporsi a tutto campo pare rispondere allo scopo di affermarsi come attore necessario, indistintamente nei confronti di tutti i suoi interlocutori. In parallelo a Mosca in Siria e Libia; nel conflitto fra Armenia e Azerbaigian; nei confronti dell’Egitto, in Libia e Sudan; rispetto all’avanzata cinese in Asia Centrale. E ora contrapponendosi di nuovo alla Grecia, con la quale è da anni ai ferri corti a Cipro. Prescindendo ostentatamente dall’appartenenza alla NATO che, dall’immediato dopoguerra, ne ha puntellato la sicurezza, conferendole autorità e credibilità in quell’invidiabile ruolo di chiave di volta della strategia mediterranea, che va oggi disperdendo.
La disgregazione del sistema internazionale post-bellico ha apparentemente suscitato anche ad Ankara la presunzione di potersene avvantaggiare per ‘far de sé’. Nell’impulso di scrivere la storia andando a ritroso, in un ritorno al passato che la accomuna a Russia e Cina, senza disporre delle medesime loro carte. La riesumazione dell‘’ubris’ neo-ottomana non pare infatti destinata a far breccia nei disastrati squilibri di una regione che richiederebbe piuttosto la convergenza dei principali attori interni ed esterni.
Il nuovo corso della Turchia le fa quindi perdere la funzione che ha svolto per secoli. Dopo aver licenziato Davutoglu, l’accademico del quale si era avvalso per propagandare una strategia regionale ‘a 360 gradi’; aver costretto all’esilio Gülen, oppositore altrettanto articolato; imprigionato giornalisti e dissidenti; Erdogan, come Xi, come Putin, dai quali peraltro si distanzia, si trova ‘solo al comando’.
E pensare che c’è ancora chi ritiene che ad irrigidire il comportamento di Erdogan sia stata la riluttanza dell’Unione europea ad accoglierlo. Come se la sua appartenenza alla NATO fosse servita a distoglierlo dall’accumulazione di prese di posizione ed iniziative contrarie agli interessi dell’Alleanza della cui protezione si è avvalso durante l’intera Guerra fredda.
Il comportamento di una Turchia, al pari di quello dell’Ungheria nell’UE, indica semmai che le appartenenze istituzionali, le alleanze, non sono più quelle che sono state, contenitori destinati alla convergenza di intenti. Non che non siano più necessarie, poiché di solidarietà ancora si sopravvive; ma non sono più così esigenti, nel venir meno della percezione di un pericolo imminente, condiviso. Meno evidente, ma non meno reale.
La pandemia non sarà quindi servita da ammonimento?