“Perché i poeti nel tempo del bisogno?” si domandava Hölderlin in una delle sue elegie. “Perché gli urbanisti nel tempo della crisi?” ci dobbiamo domandare noi, con l’obbligo di una risposta convincente sul ruolo dell’urbanistica nella transizione delle città verso lo sviluppo sostenibile, verso il recupero della loro identità e verso il potenziamento delle loro comunità, sempre più plurali, soprattutto dopo la drammatica crisi sanitaria, e poi economica, del Covid-19.
Sono sempre stato convinto, e lo sono oggi ancora di più, che nuove politiche urbane e una rinnovata azione urbanistica integrata con le pratiche sociali più efficaci siano indispensabili per rilanciare – migliorandolo – lo sviluppo, per rafforzare la qualità e per estendere la coesione. Sono un punto cardine di una agenda politica italiana entro lo scenario europeo più sostenibile, più creativo, più intelligente e più solidale lanciato prima con il Green New Deal e oggi con i cospicui finanziamenti e prestiti post-Covid.
Ho sempre considerato l’urbanistica la continuazione della politica con altri mezzi, perché il rilancio dell’agenda pubblica per le città dovrà essere l’energia pulita che le rimetta in grado di guidare la ripresa della produttività dei territori, il miglioramento della qualità dei servizi essenziali, l’incremento della sostenibilità ecologica degli insediamenti, il ripensamento di un welfare più solidale, l’eliminazione dei divari sociali, digitali e sanitari.
Abitiamo in quello che ormai è definito il “secolo urbano”, fatto di migliaia di città, tutte diverse per forme, colori, abitanti, estensioni e storie, ma tutte protese ad esercitare la più potente forza magnetica nell’attrarre donne e uomini.
Oggi che questo magnetismo, che lo stesso concetto di attrattività urbana si scontra con le cautele del distanziamento, dobbiamo ripensare il patto tra persone e luoghi, tra città e comunità, arricchendolo della diversa, e più distribuita, forza gravitazionale generata dalla bellezza, dalla cultura, dalla creatività, dai sogni e dalle ambizioni degli abitanti, dagli occhi sapienti della maturità e dagli sguardi lungimiranti della gioventù. Una forza, quella della bellezza, maggiormente distribuita nelle città europee, soprattutto in quelle italiane, e con un migliore equità.
Ho sempre pensato – e ho combattuto battaglie per sostenere questo pensiero – che il ritorno della bellezza, della qualità dei luoghi e della creatività delle persone come priorità per le città costituisca non solo l’occasione per ridefinire i profili di competitività (oggi messa in discussione dalle stesse modalità di diffusione del virus), di sostenibilità e di coesione di un’Europa travolta dall’azione congiunta della crisi economica, degli effetti del cambiamento climatico, e della pandemia sanitaria. Ma è anche l’opportunità per ripensare il ruolo sociale dell’urbanistica dopo il fallimento dei protocolli finanziari del capitalismo estrattivo, dopo l’esplosione della bolla immobiliarista, dopo il disvelamento dell’inganno della crescita in debito.
L’interazione esplosiva tra aumento dell’impronta urbana sul pianeta e crisi di un modello finanziario di sviluppo ci impone di rivedere i paradigmi che guidano il governo del territorio, non più in termini esclusivi di crescita, accumulo e consumo, ma programmando e regolando anche la decrescita e il riuso, progettando la densificazione e il policentrismo, ma soprattutto reinserendo bellezza e qualità tra i parametri di sviluppo.
Utilizzare la bellezza come strumento del progetto significa accettare la sfida di re-immaginare l’urbanistica (ne ho scritto nel libro Re-imaginig Urbanism del 2013) in un’Europa che voglia rilanciare lo sviluppo attraverso il motore della qualità. In Italia bellezza significa pensare, progettare e governare la ripresa della produttività dei territori, il miglioramento della qualità dei servizi, l’incremento della sostenibilità ecologica degli insediamenti, il ripensamento di un welfare più solidale, l’incremento dell’intelligenza delle infrastrutture e il radicamento della sensibilità al paesaggio. Oggi l’urbanista deve perdere la sua accezione del solitario demiurgo, per deflagrare in un “urbanista collettivo” che attinga ai fermenti sociali, agli arcipelaghi della cittadinanza attiva, al protagonismo civico e alle pratiche collaborative.
La città è nata, quasi seimila anni fa, come il luogo migliore per vivere, non solo per la protezione da una natura ostile, ma perché consente una vita di comunità che si fonda sulla bellezza per generare identità, per costruire relazioni feconde, per tessere sinapsi fertili, per produrre nuove economie e per accelerare l’innovazione.
Nella mia visione urbanistica le città sono come le barriere coralline, aggregati fecondi di bio-antropodiversità, brulicanti di colonie di creatori che interagiscono tra di loro e si influenzano l’un l’altro, che cooperano e che riciclano. La chiave per l’evoluzione, naturale o urbana, è quindi il bricolage continuo di parti per adattarsi all’evoluzione, prendendo un oggetto da un contesto e immettendolo in un altro, ridonando così bellezza ad una risorsa dismessa, ripristinando salubrità dove vi era contagio, coesione al posto della diseguaglianza.
L’approccio del bricoleur – già invocato da Walter Benjamin e ripreso negli studi antropologici di Levi-Strauss – è fondamentale per rinnovare l’azione del progetto urbanistico. L’urbanistica-bricolage deve ritrovare la regola del gioco delle migliori origini, rielaborando continuamente ciò che offre il contesto, escogitando sempre nuove possibilità combinatorie e creative da affidare alle multi-comunità del progetto e dell’azione.
Bellezza urbana, quindi, significa che le città devono essere più creative in termini di generazione di nuovo valore, devono agevolare il riuso creativo della dismissione industriale e infrastrutturale, devono incentivare ed estendere l’uso dei dati aperti per la gestione quotidiana e devono incrementare la loro resilienza per la revisione dei cicli di acqua-energia-rifiuti e per la gestione delle reti digitali e di mobilità verso una reale sostenibilità. Bellezza è anche la nuova agricoltura urbana come attivatrice di metabolismi più sostenibili, e bellezza sono anche le migliaia di makers e di cittadini digitali che tornano ad essere protagonisti, produttori e attivisti e non più solo consumatori.
Solo così la “bellezza educherà il mondo” come scriveva il Cardinale Bergoglio – non ancora Papa Francesco – in un suo straordinario libro dedicato alle periferie di Buenos Aires, in cui è racchiuso tutto il suo potente magistero che oggi dispiega con quotidiano vigore, e che ha cesellato nella straordinaria Enciclica Laudato Si’, per me uno dei migliori libri, quasi un manuale, per gli urbanisti più sensibili e militanti.
Ecco perché servono gli urbanisti nel tempo del bisogno, perché siamo i custodi e i protettori della bellezza del mondo!
Maurizio Carta rappresenta l’intellettuale nel senso più profondo del termine. Ogni suo lavoro dimostra la caledoscopica opportunità di analisi del futuro possibile.