Il tema delle condizioni di lavoro degli immigrati nelle campagne è sempre stato un tema molto dibattuto nella sociologia: basti considerare che uno dei padri fondatori, Max Weber, già alla fine dell’ Ottocento poneva in evidenza, in riferimento ai polacchi reclutati nelle campagne agricole prussiane, come “la ragione dell’impiego dei migranti risieda nei salari inferiori in termini assoluti (…), nella maggiore docilità di questi stranieri in condizioni precarie (…), senza doversi fare carico degli obblighi di diritto amministrativo e di altro genere che sussistono nei confronti dei lavoratori autoctoni”.
Per oltre un secolo l’Italia ha rappresentato un paese con una forte tradizione emigratoria, basti considerare che fino agli anni ‘60 era il primo paese europeo per numero di emigrati all’estero: a partire dagli anni novanta si assiste ad una inversione di tendenza del saldo migratorio, al punto che nel 2017 si è raggiunto un sostanziale equilibrio tra il numero degli italiani all’estero e il numero degli immigrati in Italia, intorno a circa cinque milioni di individui.
In verità, in diverse aree dell’Italia meridionale, si continua a registrare una apparentemente paradossale coesistenza tra la crescita dei tassi di immigrazione e l’altrettanto crescente aumento dei processi emigratori: si tratta di un fenomeno abbastanza ricorrente nei paesi mediterranei, a causa del dislivello tra opportunità e aspettative sociali, al punto da considerarla ormai come una caratteristica specifica del “modello mediterraneo delle migrazioni”.
Questa coesistenza è ancor più accentuata nei contesti meridionali a forte vocazione agricola, in quanto un ulteriore elemento distintivo del modello mediterraneo si può riscontrare nella tendenza all’inclusione differenziale nel settore primario degli immigrati.
Anche in questo caso la letteratura scientifica ha posto in evidenza il concatenamento storico di cicli di sostituzione, fondato sul periodico tentativo di emancipazione dalla condizione bracciantile delle figure sociali coinvolte e il reclutamento di nuove figure sociali da ingaggiare nelle mansioni agricole a bassa o nulla qualificazione: i migranti in questo senso sono solo gli ultimi protagonisti di questi cicli di avvicendamento che in precedenza avevano riguardato, nelle campagne meridionali italiane, i lavoratori dalle aree interne rispetto ai lavoratori locali, successivamente il lavoro femminile rispetto al lavoro maschile, fino all’attuale segmentazione etnica del lavoro bracciantile.
Questa tendenza sociale ha determinato nel corso degli ultimi venti anni nelle aree meridionali una territorializzazione dei processi migratori del tutto particolare. La Piana di Gioia Tauro rientra a pieno titolo in questo scenario: si tratta infatti storicamente di una delle più importanti “polpe” meridionali dove l’occupazione agricola ancora oggi contrassegna in modo particolarmente evidente il mercato del lavoro, con oltre il 68% della popolazione attiva nel comune di Rosarno impegnata nel settore primario.
Malgrado il tema dell’insediamento di immigrati nella piana di Gioia Tauro sia al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica da ormai diversi anni, ancora oggi si riscontrano diverse criticità sul tema dell’accoglienza e dell’integrazione sociale sul territorio.
Se più recentemente si sono visibilmente moltiplicati gli sforzi e gli interventi da parte delle istituzioni locali e nazionali nel tentativo di contrastare in modo risoluto le condizioni più evidenti di degrado e marginalità, la loro limitata incidenza sottolinea per molti aspetti l’inefficacia di questi provvedimenti, dettati per lo più da una logica di emergenzialismo piuttosto che da una visione d’insieme di più largo respiro.
Le tende e gli accampamenti della protezione civile, che oggi sorgono in alcune aree a ridosso del territorio comunale di Rosarno, sono un esempio abbastanza paradigmatico di questa modalità: qui però non c’è nessun terremoto improvviso, ma un prevedibile e abbastanza ciclico aumento stagionale della presenza migratoria nell’area in occasione della ben conosciuta raccolta agrumicola.
La necessità di un superamento di questa logica e l’assunzione di una visione più strutturale, pone come condizione preliminare una conoscenza adeguata e articolata del fenomeno sul quale si intende intervenire.
Se infatti esiste ad oggi una vasta e articolata bibliografia sul tema dell’immigrazione a Rosarno, queste pubblicazioni risentono in gran parte di un riduzionismo pregiudiziale che tende ad accentuare gli aspetti più estremi del disagio sociale, tanto in una prospettiva vittimologico/umanitaria quanto in quella criminogena/repressiva, in una funzione-specchio di reciproca legittimazione che tende però ad annullare uno sguardo più analitico sulla complessità del fenomeno.
La stessa categoria di “immigrato” racchiude in verità una pluralità di figure sociali che andrebbero inquadrate in modo articolato e non univoco: per esempio, i migranti stagionali hanno una relazione con il territorio del tutto differente dalle seconde generazioni, così come le fragilità socio-giuridiche di un richiedente asilo di recente approdo sono differenti dai bisogni sociali di nucleo familiare neocomunitario.
Lo studio del fenomeno migratorio richiede quindi una dettagliata analisi non solo nei termini della composizione sociale ma anche della specifica declinazione che questo fenomeno assume nei contesti locali specifici.
Una necessità che si rende ancor più urgente anche alla luce del ruolo sempre più determinante delle politiche locali, che ormai “si configurano sempre più come ambito parzialmente autonomo e rilevante delle politiche di regolazione e gestione dell’immigrazione”.