Con le prime luci del mattino, percorro un sentiero del fondovalle. Il sentiero segue lo scorrere lento di un corso d’acqua. L’acqua si muove sinuosa fra i massi che riaffiorano, mulinando e schiumando e luccicando.
Il sole sorge. Mentre cammino parlo. Parlo sottovoce a me stesso. Cammino all’ombra dei frassini e dei castagni, le fronde trattengono la frescura. Oltre le fronde, sei grossi cavi della linea dell’alta tensione riposano stanchi tra un pilone e l’altro e mandano un leggero ronzio, come se dormissero.
Poco fa, sono stato superato a corsa da due giovani donne nei loro abiti tecnici di colori sgargianti. Ora, mi supera un uomo, cane al guinzaglio, smartphone al braccio e auricolari nelle orecchie. Il passo sostenuto. Quando è distante vedo soltanto un punto che sembra fermo, poi scompare.
Alla mia destra, sul lato opposto del fiume, sorge un paesino. La chiesa al centro, due o tre stalle, pile di balle di fieno avvolte in plastica bianca, l’erba alta nei prati. Sul fiume c’è un ponte, pedonale, di legno. Attraverso il ponte, raggiungo la piazza, entro nel negozio, faccio provviste.
La mia cartina geografica segnala la deviazione che devo prendere per risalire il fianco della montagna. Guardo la montagna, s’innalza secca, imponente. Oltre il bosco di frassini e castagni inizia la pineta. Nella pineta spicca una radura illuminata di verde vivo da un raggio di sole.
Riattraverso il ponte, taglio a sinistra, salgo una ripida mulattiera tra i muretti a secco. I muretti cadono a pezzi e sono inghiottiti dalla vegetazione.
Il bosco si dirada. Un prato falciato da poco, un pugno di vecchie baite riattate alla buona. Le finestrelle come occhi sbarrati e puntati verso valle, tetti sghembi in piode. Seduto sul bordo di una fontana, un anziano barbuto guarda dentro il binocolo puntato verso monte.
Camosci? Quel che passa al convento, mi risponde sottovoce come fanno i cacciatori. Seguo la linea del binocolo, punta alla radura d’erba verde. Lassù, si apre un piccolo passo. L’ho visto prima sulla cartina. La cartina mostrava anche un laghetto.
Mi ritrovo ancora nel bosco e ricomincio a parlare a me stesso, come se quelle cinque o sei costruzioni in sasso e il vecchio cacciatore non fossero stati che una visione. A parte la corta sosta al negozietto, sto camminando ininterrottamente da cinque ore. Mi sento libero e leggero. Quand’è così, evito di fermarmi, mi godo il momento. Niente di più gratificante delle tue gambe che sanno portarti senza sforzo alcuno.
C’erano stati periodi, nel passato, in cui gli infortuni mi avevano obbligato al riposo. Come quando mi era fratturato il calcagno del piede sinistro. Una frattura da stress per il troppo sforzo, aveva detto l’ortopedico. Ero stato troppo goloso nel migliorare il tempo per salire su un pizzo.
L’avevo migliorato di un quarto d’ora, mi sentivo bene. Non avrei mai pensato che al ritorno, sempre correndo, potessi avvertire un dolore lancinante tra il polpaccio e la caviglia. Subito aveva pensato al tendinite d’Achille. Non sarebbe stata la prima volta. Ma la risonanza magnetica effettuata alcuni giorni dopo aveva diagnosticato la frattura da stress del calcagno.
Uno stop alle lunghe camminate di tre mesi e alla corsa di sei e l’invito dell’ortopedico di appendere le scarpette da corsa al chiodo. Alla tua età, mi aveva detto, datti una calmata. Quando avevo finalmente potuto ricominciare a correre, mi ci erano voluti mesi per ritrovare la forma perduta.
Grazie a quella disavventura ho imparato a leggere meglio il mio corpo e a dosare le forze. E ho cambiato l’approccio al trekking e alla corsa. Se prima ero attratto dal tempo, ora sono attratto dalla distanza. Non sono più interessato al tempo che impiego per raggiungere una determinata destinazione, purché questa sia il più lontano possibile.
Dopo altre tre ore di cammino, trovo il laghetto. All’ombra di un gruppetto di giovani larici mi svesto. L’acqua fredda alle caviglie, le cime delle montagne ancora innevate. Due gracchi alpini gridano rauchi da uno sperone di roccia, prendono il volo e si rincorrono come se stessero bisticciando prima di finire in una corrente ascensionale che li porta dove il cielo è così luminoso da non poterli più distinguere.
Con le mani mi bagno il viso, le braccia. Mi tuffo. Un istante dopo sono in piedi nell’erba, nudo e freddo, rivolto verso il sole. Più tardi, sto attraversando la fenditura del passo. Poco più sotto, mi fermo per passare la notte.