Quest’anno, il “freddo delle pecore” è durato cinque o sei giorni. Abbastanza a lungo per spingerci ad accendere un poco il fuoco nei camini anche se siamo a metà giugno. Appena il sole calava dietro la cresta occidentale, il fumo iniziava a uscire dai comignoli e nel paese ritornava il profumo acre del faggio.
L’altro ieri, giorno del solstizio d’estate, s’è fatto improvvisamente caldo. Dentro la mia baita il fresco tiene nel piano di sotto, ma in mansarda sembra d’essere in città. La sera apro tutte le finestre e l’aria che scende dalla pineta mi fa dormire.
Alla radio, le previsioni meteo hanno detto che l’isoterma di zero gradi è salito, in un giorno, da duemilaseicento metri a quattromila metri. Con quest’ondata rovente, i selvatici boccheggiano. Ma non sono i soli.
Il ghiacciaio dell’Adula, che vedo dalla finestra, ansima e piange. Sono anni che piange. Il surriscaldamento globale lo sta colpendo ai fianchi. Le sue lacrime ingrossano i torrenti che si riversano nel fiume Brenno giù nel fondovalle, per poi scomparire dentro laghi e mari e oceani.
Mi sveglio presto, il sole è ancora dietro la montagna. Il paese dorme, anche il contadino che abita dietro di me. Le sue mucche sono già all’alpe e lui alle cinque può voltarsi dall’altra parte ancora per un’oretta. Ieri sera era fuori fino alle nove a girare il fieno e fra non molto uscirà di casa, tirandosi dietro moglie e figli e nipoti che questi sono giorni di fienagione e non c’è vacanza scolastica che tenga.
M’incammino nel fresco del giorno nascente. Alla fontana mi fermo a bere anche se non ho sete. È un abitudine, per sentire l’acqua spaccarmi i denti. Salgo lungo il sentiero che costeggia il torrente. La scorsa settimana ha fatto dei temporali e l’acqua viene giù ancora impetuosa come se c’avesse addosso il diavolo.
Infine taglio a destra e prendo per il pendio esposto a est. Una decina di passi e m’immergo nella scura pineta. Scavalco tronchi, faccio slalom tra rocce e formicai. Avanzo a passo di marcia. Lo sciabordio del torrente s’attenua. Per alcuni minuti lo sento ancora ma è solamente il ricordo del suo rumore. Resiste un altro po’. S’arrende.
La solita ghiandaia gracchia al mio passaggio e s’invola. Poi ritorna il silenzio. In pineta, la mia fantasia viaggia, mette assieme storie, le allaccia a vecchi ricordi e parlo a me stesso con un bisbiglio. Mi piace credere d’essere nel fresco e nella penombra di un’immensa cattedrale, dove si deve parlare sottovoce per non disturbare.
A poco più di duemila metri di quota esco dalla pineta e vengo accolto dal sole. I rododendri alpini in fiore, le genziane blu. Il cielo è limpido, l’aria frizzante. Cinguettano gli spioncelli, con quel loro modo di stare fermi nell’aria per poi lasciarsi cadere a paracadute. E già fischia la marmotta sentinella che mi ha avvistato dalla cima della sua roccia. Allerta la colonia intera, allora le vedo perché si muovono per mettersi al sicuro. Rimanessero ferme sarebbe impossibile scorgerle, mimetizzate che sembrano a un rilievo del terreno o a un prolungamento di un sasso. La sentinella fischia di nuovo, con un balzo si porta all’entrata della sua tana. Mi osserva. Quando le sono a una decina di metri sparisce.
Raggiungo lo stesso posto che avevo trovato l’estate scorsa. Mi volto faccia a valle. Il sole scalda la mia nuca. Prendo la borraccia dallo zaino, bevo guardandomi attorno. Ripongo la borraccia e pesco il binocolo. Davanti a me, dall’altra parte della vallata, sale dolce il versante esposto a ovest.
A primo colpo d’occhio, spicca la pineta. Vasta, dal fondovalle fino alla quota del piano alpino superiore. Abeti rossi, un qualche larice. Alzo di un altro po’ lo sguardo. Nell’erba novella, chiazze bianche dell’ultima nevicata di aprile come enormi tovaglie sul prato da picnic. Nei canaloni, lingue bianche che scendono a cono, sempre più strette fino a estinguersi.
E poi li vedo. Inizio a contarli. Un giorno dello scorso anno ne avevo contati sessantadue. Ora, ne conto nove sdraiati sulla prima tovaglia a sinistra, ventuno che si muovono nel bianco del canalone, undici sdraiati in un altra chiazza più piccola. E altri, e altri ancora. Li riguardo da sinistra a destra e li riconto. Settantaquattro cervi. Quasi tutti maschi, come soldati stravaccati a terra dopo la marcia di cinquanta chilometri. Coi loro palchi, enormi quelli dei vecchi, modesti quelli dei giovani. Prendono il fresco in questi primi giorni d’un estate che si preannuncia lunga e torrida.