Mi ero ripromesso di iniziare la nuova serie di contributi a questo blog con alcune riflessioni d’assieme sullo stato dei rapporti internazionali. Devo interromperne lo svolgimento, turbato dalla sorprendente incursione di Paolo Mieli sull’odierno Corriere, del quale è stato per anni direttore.
Si dovrebbe pretendere che chi per anni è stato responsabile di fornire all’opinione pubblica informazioni accurate e complete (“facts before opinions” è il brocardo della stampa anglosassone, se non della nostra) si astenga dal fornire resoconti e somministrare giudizi sommari, che fanno di ogni erba un fascio. E, quel che è più grave, denigrando il comportamento post-bellico dell’intero Occidente, oltre ad assolvere l’eterna neutralità della nostra politica estera.
Nulla dice delle responsabilità dell’Unione Sovietica e poi della Russia nel paralizzare i rapporti internazionali, oltre a sfidare militarmente l’Occidente, direttamente o indirettamente, sobillando i suoi clienti in Medioriente, America Latina, Asia. Nulla sul caos perenne che caratterizza i rapporti interarabi. Attribuendo all’Occidente le colpe di ogni insuccesso, per la sua ostinazione nel voler ‘esportare la democrazia’.
Una determinazione, quest’ultima, che caratterizza l’Occidente dalle sue origini, un secolo fa, a Versailles, ribadita dopo la seconda catastrofe bellica, corrispondente ormai alle pretese di intere popolazioni russe, arabe, ed orientali, nei confronti di regimi autoritari, disfunzionali rispetto all’avvenuta globalizzazione delle loro aspirazioni.
Diversamente da quello dei suoi antagonisti, il comportamento dell’Occidente è sempre stato ispirato all’antico criterio delle ‘buone intenzioni’. Pur corrispondendo al metodo socratico, poi cristiano, caratteristico della nostra civiltà, l’autocritica non può però farsi auto-denigrazione, spalancando la strada ai suoi detrattori. Ne va del futuro dell’umana convivenza.
Nel momento in cui l’Occidente, di cui facciamo parte, si trova a dover consolidare le sue convinzioni nel serrare le proprie fila, politiche più che militari, un tale atteggiamento rinunciatario (condiviso da un altro autorevole commentatore del medesimo quotidiano) non può certo contribuire alla presa di coscienza delle scelte strategiche che l’Italia non può più procrastinare.
Né possiamo imputare al nostro traballante governo le ambiguità e indecisioni che da tempo emarginano la nostra politica estera, in Europa, nel Mediterraneo, nei confronti di Washington, Mosca e Pechino.