Il futuro, si dice, è nelle mani dell’Asia. Non necessariamente però della Cina, intenzionata ad affermare il suo predominio regionale, in un sistema che, come la Russia, vorrebbe multipolare invece che multilaterale.
Tanto più che sta prendendo forma una comunità di interessi fra le nazioni del Sudest asiatico che, pur essendo socialmente, economicamente e politicamente eterogenee, necessitano di spazi strategici allargati nei quali far meglio valere le loro ambizioni ‘emergenti’. Nella sopravvenuta consapevolezza che l’avvenuta globalizzazione esclude sia i confronti militari che durante la Guerra fredda hanno dilaniato anche quella parte del mondo, sia il ‘non-allineamento’ con il quale ha vanamente tentato di districarsene.
Al giorno d’oggi, si dovrebbe pertanto ritenere possibile aggregarvi un numero crescente di Stati sospinti dal medesimo intento (like-minded). Lo stesso capitalismo, liberale da noi, diventato ‘di stato’ in Cina, malamente inseguito in Russia, sta facendo proseliti nelle operose società asiatiche. Una circostanza che dovrebbe lasciar ben sperare nella sua funzione di coagulo e forza di attrazione, nell’equilibrare le eterogenee componenti della globalizzazione, e riconciliare l’Occidente e l’Oriente.
Stimolando non soltanto le ‘nuove tigri’ del Sudest asiatico, alla ricerca di nuovi spazi che stemperino i loro antichi istinti nazionalistici; ma anche il Giappone, che non può più contare sull’incondizionata garanzia di sicurezza americana e deve liberarsi delle tensioni con la Corea del Sud e la Cina; la stessa Corea del Sud nei suoi rapporti con il Nord, oltre che per tutelare la sua espansione economico-commerciale; l’India, ambiziosa ma priva di partner strategici; l’Australia e la Nuova Zelanda, infine, che devono dotarsi di una politica estera più attiva, fra Cina e Stati Uniti.
Coinvolgendo anche i Paesi del Centroamerica e dell’America Latina che si affacciano sull’Oceano Pacifico, che sanno di non poter continuare ad astrarsi da un mondo globalizzato e de-ideologizzato. Ai margini di tale area geostrategica rimane invece per ora l’Africa orientale, che potrà però ottenerne dei benefici indiretti, alleggerendo comunque le pesanti ipoteche economiche contratte con Pechino.
Le dichiarazioni e azioni assertive della Cina nel Mar meridionale, a Hong Kong, verso Taiwan, gli scontri armati nel Kashmir, vanno per ora interpretate come delle intimidazioni rivolte ai suoi stessi vicini per dissuaderli dal ritenere l’America come valido contrappeso alla propria egemonia. Suscitandone però le preoccupazioni e la ricerca di controassicurazioni.
Obama aveva tentato di corrispondere a tali sopravvenute condizioni, disponendo un pivot dell’America verso il Pacifico, da inaugurare mediante un “Partenariato Trans-Pacifico” (TTP). Non, come si è voluto dire, per contrapporre un proprio più esteso schieramento all’espansione cinese, bensì per incoraggiare una maggiore integrazione sub-regionale, alla quale anche Pechino si sarebbe dovuta commisurare.
La sorte di quell’intera macro-regione non può comunque essere lasciata, come vorrebbe Trump, all’esito di un confronto militar-commerciale fra Cina e Stati Uniti, dovendo invece beneficiare del l’attivo concorso di tutti i paesi rivieraschi di quell’oceano. Nella tardiva adesione alla visione di Spykman che, cent’anni fa, prefigurava l’affermarsi di strategie internazionali determinate dai rapporti fra le sponde marittime delle masse continentali.
Un risveglio di tale portata non può più essere affidato soltanto alla determinazione dei paesi alleati militarmente agli Stati Uniti, collegati dai Trattati bilaterali con Tokyo e Seul, dall’ANZUS (America, Nuova Zelanda e Australia) o affidati agli accordi fra i rispettivi Servizi di informazione, quale il ‘Five eyes’ (che include il Canada e al quale è associata la Francia, a tutela dei propri possedimenti insulari nell’area). Tanto meno al coinvolgimento della NATO, dichiaratasi disposta ad estendervi la propria presenza e collaborazione.
Lo sviluppo di una inedita comunità ‘indo-pacifica’ potrebbe peraltro avvalersi collateralmente dell’influenza del ‘soft power’ di un’Unione europea rimasta orfana di un’America che va volgendo lo sguardo all’altra sua distesa oceanica. Mettendo alla prova il ‘multilateralismo efficace’, e differenziato, che costituisce il marchio d’origine di una politica estera e di sicurezza comune di un’Europa strategica che rimane sulla carta. La cui credibilità rimane però affidata ai suoi membri più intraprendenti, stentando ad esprimersi persino nel Mediterraneo e in Africa.