Oggi tutti parliamo di sussidiarietà e beni comuni, innamorati del suono delle parole e accecati sui rischi che vi si celano. Io sono un partigiano del ruolo attivo dei cittadini nel governo della città e voglio svelarvi i rischi, per poterli evitare, raccontandovi le storie di due amici straordinari, che chiameremo Fabrizio da Pantelleria e Andrea da Favara, due persone che vivono quotidianamente l’audacia dell’innovazione e del civismo politico.
Andrea un giorno ha deciso, invece di andare a vivere il suo amore per l’arte e l’architettura a Parigi, di portare l’arte, il design e l’innovazione a casa sua, a Favara. Ha acquistato alcune case dirute attorno a sette piccoli cortili in un centro storico abbandonato e pericoloso e le ha restaurate e dipinte di bianco decorandole con opere d’arte, ha convinto altri proprietari a seguirlo, ha chiamato artisti da tutto il mondo ad esporre a Favara e a donare le loro opere, ha convinto innovatori del cibo, dell’agricoltura, della musica che Favara fosse la ribalta giusta per dimostrare quanto dirompente fosse la loro rivoluzione.
E tutto questo lo ha fatto sostituendosi all’amministrazione che non aveva risorse, e all’inizio nemmeno volontà, per occuparsi di far tornare vivo un centro storico considerato ormai un cadavere da seppellire. Ha ricostruito rovine, ha riaperto giardini nascosti, ha messo in sicurezza spazi, ha installato opere d’arte, ha stimolato l’apertura di b&b e di ristoranti. Ha aperto una scuola di architettura per bambini per educarli alla bellezza e poi una scuola di politica per giovani donne per potenziarne le capacità e per estenderne le opportunità.
Ha speso molte risorse, ne ha generate altrettante in città, ha operato da soggetto politico non sempre riuscendo a innovare l’amministrazione locale con il medesimo ritmo. E adesso ha inventato una nuova forma di capitalismo sociale fondato sulla creatività e l’innovazione.
Fabrizio invece è un sanguigno imprenditore del vino che ama la sua isola in maniera carnale. E che, invece di dedicarsi solo a migliorare sempre di più il suo imperdibile zibibbo di Bukkuram, decide di spendere tempo ed energia per migliorare l’attrattività e l’accoglienza pantesca, disposto a investire in prima persona competenze e risorse. Vorrebbe gestire e curare il verde pubblico del centro per renderlo più gradevole e adeguato al piacere di passeggiare nelle calde notti estive, vorrebbe istituire piccole comunità energetiche per condividere l’energia solare, eolica o dai rifiuti. Vorrebbe donare ai turisti delle comode scalette per risalire dal mare sui neri scogli per rendere più agevole il loro soggiorno nell’isola del vento.
Vorrebbe, vorrebbe, vorrebbe, perché davanti alle sue intenzioni c’è sempre una burocrazia ostativa, una norma che pretende che anche il volontariato sia messo a bando, un cavillo che impedisce qualsiasi innovazione, o un buco normativo entro cui cadono inesorabilmente le migliori intenzioni. So che Fabrizio non si arrenderà ma certamente la sua battaglia per la sussidiarietà sarà aspra.
Cosa ci dicono queste due storie, insieme a mille altre in Sicilia e altrettante dal Sud al Nord dell’Italia? Storie di comunità di cittadini coraggiosi che rialimentano la fiducia attraverso la cura dei luoghi urbani come beni comuni.
Sono mille storie che ci fanno ringraziare i mille Andrea e Fabrizio, insieme alle Cristina e Azzurra che praticano una vera sussidiarietà e professano con l’esempio la gestione condivisa degli spazi pubblici. Ma ci impongono di chiederci cosa succede quando arrivano in un luogo altri 10, 100, 1000 Fabrizio e Andrea? Magari con gusti e sensibilità diverse? Cosa succederebbe se l’alter-Andrea volesse colorare i suoi cortili di rosa cipria o con i colori della squadra di calcio? O se decidesse chi debba entrare nel suo spazio rigenerato e chi invece non sia adeguato? Per cultura, magari, o per censo, etnia, appartenenza politica. O se l’alter-Andrea volesse riempire lo spazio di messaggi pubblicitari o facesse marketing con i dati degli utenti? O se volesse aprire una scuola di architettura inneggiando all’abusivismo o una scuola di politica che educasse al razzismo?
E cosa succederebbe se anche l’alter-Fabrizio volesse regalare le scalette per risalire dal mare, ma le volesse fare rosse, così si vedono meglio, accanto a quelle in acciaio di Fabrizio? O se non si curasse della sicurezza dei bagnanti? Oppure se anche lui volesse curare le aiuole del centro isolano ma volesse recingerle con ficodindia e zucche gialle, come starebbero accanto alla vite bassa delle aiuole precedenti?
Lo so che state pensando che l’intervento del pubblico non ha dato prova di saper evitare le criticità che ho appena elencato. La domanda è quindi: come coniugare bravi solisti e gradevole armonia? Attivismo e sicurezza? Intervento privato, interesse collettivo e regia pubblica? Come sempre in questi casi serve un bravo direttore d’orchestra, cioè la buona politica, di cui la buona urbanistica è lo spartito.
Il fallimento della pubblica amministrazione e della burocrazia, il sopravvento della vessazione sulla facilitazione, il prevalere dell’arbitrio sulla giustizia, il fallimento della regolazione sulla qualità, hanno fatto fiorire i semi della cittadinanza attiva e la cooperazione per i beni comuni ha dato frutti rigogliosi, come quelli coltivati da Fabrizio e Andrea. Ma va ritrovata una armonia alla scala urbana e non solo alla scala dell’orto, del marciapiede, dell’aiuola, del cortile.
Perché il problema non è la produzione di lattuga o pomodori, ma la questione è se la gestione dal basso dei beni comuni può essere efficace per influenzare il funzionamento di una città e quindi per affrontare le questioni dell’alloggio, dell’uso dell’energia, della distribuzione del cibo e della qualità dell’aria e dell’acqua. In altre parole, la città è il risultato di piccoli atti di autarchia e di resistenza, o dobbiamo coniugare l’eroismo di Fabrizio e Andrea con la democrazia urbana?
La cura delle risorse comuni deve essere affiancata da una strategia generale, come scriveva il Premio Nobel Elinor Ostrom: serve un insieme di relazioni sociali per condividere la responsabilità non solo di un giardino, di sette cortili, di una piattaforma marina, di un opificio sociale o di un piccolo teatro, ma anche il governo del quartiere e relazioni di vicinato. Dobbiamo saper orchestrare anche il ricorrente “contrappunto” (proprio della vivacità urbana) e non solo la meno frequente armonia.
Vi ricorda qualcosa? Certo, è la città dei comuni dell’Italia del Medio Evo e del Rinascimento. E’ la città dipinta da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena. E’ la comunità di Adriano Olivetti. Città e comunità dove diversi toni, registri, stili, tempi, anche in contrappunto, trovano composizione in una nuova sonorità che dava voce alla creatività urbana.
E’ la città! Bene comune per eccellenza. Perché è questo che oggi serve: una nuova politica delle città che sia il direttore d’orchestra dei nuovi strumenti che entrano in gioco, pubblici e privati in nuovi e sublimi accordi e contrappunti. Un direttore d’orchestra collettivo capace di far suonare un esperto primo violino insieme ad un giovane ma talentuoso violoncello, un autorevole oboe insieme ad un seducente clarinetto.
Capace di legare insieme un lungimirante tempo andante con un tempestivo tempo presto, prestissimo. Perché di entrambi i tempi deve risuonare l’orchestra urbana.