La pandemia ha contribuito fra l’altro a squarciare il velo della nostra indifferenza allo svolgimento degli eventi internazionali. Dai quali l’intero Occidente pare essersi ritratto, mentre i suoi antagonisti ne approfittano per sfogare antichi istinti che ritenevamo superati dall’avvenuta globalizzazione. Si è persino diffusa la convinzione che l’internazionalismo liberale kantiano, imperniato sulla convergenza di intenti, sia inadeguato a gestire la contemporaneità.
Si afferma che un ‘nuovo ordine internazionale’ vada inventato di sana pianta. Dall’America, rassegnati, Robert Blackwill dell’autorevole Council on Foreign Relations e Thomas Wright della Brookings sostengono che siamo in presenza della ‘fine dell’ordine mondiale’; come se avesse mai attecchito. Stephen Heinz, del Rockefeller Fund, lamenta persino “l‘obsolescenza delle tre componenti che negli ultimi trecentocinquant’anni hanno innervato la società occidentale: il capitalismo, lo Stato-nazione e la democrazia rappresentativa”. Affermazioni che vanno accolte come opportune ammonizioni, piuttosto che come esortazioni a ‘rifare’ un mondo che procede comunque per la sua strada. Il cui progresso dovrebbe semmai tornare ad essere più coralmente accudito.
L’aspirazione, non tanto ad un governo mondiale, ma quanto meno ad una ‘governabilità transnazionale’ non può ritenersi esaurita. Se si considera come il radicarsi di quel ‘novus ordo saeculorum’ che ha dato origine alla Rivoluzione americana, poi trapiantato in Europa tanto a Versailles quanto a San Francisco, sia stato impedito dall’insorgere della Guerra fredda. E’ a quella casella di partenza che dobbiamo tornare, se non vogliamo soccombere ai molteplici nuovi virus che affliggono il sistema dei rapporti internazionali. Un’impresa alla quale l’Occidente, chi altro?, dovrebbe dedicarsi con rinnovata convinzione.
Al giorno d’oggi, con buona pace di McKinder, non è più l’estensione territoriale a determinare la potenza; semmai, al contrario, la appesantisce. A consolidarla è piuttosto la capacità di irradiazione, di stabilire delle connessioni, che Mahan attribuiva alla proiezione sui mari, ai commerci. Una dimensione che Putin, erede di Caterina, va perseguendo in Medioriente e in Nordafrica; mentre Xi, con la sua ‘cintura’, affronta ambedue le strategie: misurandosi militarmente con i paesi che le sono contigui, nel Sudest asiatico, con l’India, oltre a tentare di imporsi sulle rotte marittime.
Nel difendere il loro atteggiamento, ambedue si trincerano dietro l’asserito ‘conflitto di civiltà’, consistente essenzialmente nel dilemma fra individuo e collettività, trasformatosi al giorno d’oggi in quello fra libertà e sicurezza. La democrazia delle ‘società aperte’, lo andiamo scoprendo, è un sistema sofisticato, in perenne equilibrio, intrinsecamente instabile; mentre le autocrazie, di stampo orientale, statiche, sarebbero in grado di meglio corrispondere alle esigenze primarie dalla natura umana. Ben prima di Huntington, lo dicevano sia La Boétie che il Grande inquisitore di Dostoyevski. Andrebbe però argomentato che le due civiltà non vanno contrapposte, che non vi è molto da inventare per riconciliarle.
E’ negli spazi spalancati dalla globalizzazione, infatti, non nel rinchiudersi in un’illusoria sovranità, che ogni nazione, grande o piccola, può rivendicare una collocazione corrispondente alla specificità delle proprie esigenze e sensibilità storiche e sociali. Essenziale è che il ‘codice della strada’ sia condiviso e rispettato. A chi obietta trattarsi di un modello occidentale, ne va argomentata la generale utilità. D’altronde, Putin e Xi non si arrischiano a proporre una qualche praticabile alternativa.
Gli americani sono esausti; gli europei hanno relegato in soffitta le loro antiche tradizioni militari. Per quanto pienamente legittimate dal diritto internazionale, le loro sanzioni servono a salvarne la coscienza piuttosto che ad ammonire i destinatari. Se non siamo disposti a rispondere colpo su colpo, né vedo perché dovremmo cadere nella trappola dei nostri dichiarati antagonisti, dovremmo però quanto meno denunciarne il comportamento contrario a quel che Rousseau chiamava l‘interesse generale, indispensabile alla coesione di qualsiasi comunità umana, nazionale o internazionale.
Chi sostiene che l’ONU non funziona trascura la responsabilità di Mosca nel bloccarne i meccanismi e nell’aggirarne le indicazioni: in Georgia, in Ucraina, in Siria, e ora in Libia. L’operato di Pechino, in violazione degli impegni internazionali, nel Mar Meridionale, a Hong Kong, verso Taiwan, la sua indifferenza alle norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio alla quale è stata generosamente ammessa, non può essere assimilato alla pretesa che si tratti di questioni interne, al pari del suo trattamento delle minoranze etniche in Tibet, nel Sinkiang. Nel diffondersi, ad opera tanto di Mosca e di Pechino, di quel che abbiamo preso l’abitudine di declassare a ‘guerre ibride’, non meno conflittuali di quelle classiche.
Non si può ritenere che, specie al cospetto dell’attuale ondivago atteggiamento americano, Mosca o Pechino (o Ankara) possano addivenire a più miti consigli. Più decise, esplicite prese di posizione occidentali, nell’esporre le molteplici violazioni del diritto internazionale e le mancate assunzioni delle rispettive responsabilità, devono servire, piuttosto che ad una semplice riaffermazione dei nostri valori, a risvegliare nelle nostre stesse opinioni pubbliche, nei nostri elettorati, la consapevolezza della preoccupante situazione strategica alla quale siamo confrontati.