Fede e pandemia

di 10 Giugno 2020

Diciamolo: ci voleva lo spavento del virus per riaccendere la scintilla della religiosità in un mondo secolarizzato e scristianizzato. Durante le settimane dell’emergenza Covid-19, nelle chiese rimaste aperte, persone qualunque, ben distanziate fra loro, in silenzio tra i banchi, hanno cercato “compagnia” davanti al Santissimo sacramento. Si sono riviste vecchie forme devozionali, sono rispuntate immaginette di santi che si credevano ormai sparite, si è guardato al cielo e alle nuvole cercando segni e apparizioni, si è rimasti incollati davanti al televisore a seguire messe, rosari e liturgie… Si tratta, spesso, di espressioni tipiche di una “fede bambina”, che cerca consolazione nella paura. Ma c’è qui anche il germe della ricerca escatologica, del significato ultimo delle cose, che scopriamo ancora vivo a dispetto dei diserbanti a base di materialismo consumista spruzzati abbondantemente per decenni sui campi di quel grande podere che è la nostra società.

Sarebbe, perciò, un errore prendere il fenomeno sottogamba, snobbarlo con la sufficienza di chi sa tutto e conosce tutto. Quando è iniziato il blocco antivirus e ci siamo ritrovati ai polsi le manette virtuali dei divieti governativi, dopo aver consumato tutti gli slogan mantrici, abbiamo pensato che tutto questo era solo un tempo da buttare, una scorza di vita, un vuoto a perdere. Carichi di bagagli, ci siamo seduti nella sala d’attesa di una stazione dove i treni non arrivavano e non partivano mai. In questa sospensione onirica, il display con gli orari ferroviari era in realtà lo schermo della nostra tv, su cui una sera di fine marzo è comparsa l’immagine di un uomo vestito di bianco che attraversava una piazza deserta. Di primo acchito, ci siamo spaventati. Eravamo abituati alle folle, ai saluti festosi, ai riti collettivi. E invece vedevamo il papa pregare da solo, avendo come unici compagni un grande crocefisso e un’icona della Vergine. Nient’altro.

Vegliare nel silenzio è difficile. Il Getsemani ce lo ricorda. C’è la stanchezza di una giornata trascorsa a fare. C’è il rilassamento di chi pensa di aver già dato tanto. C’è soprattutto la sottile tentazione di credere che, in fondo, non serve a nulla quel silenzio, che è una perdita di tempo, un periodo sottratto al riposo.

Durante il lockdown della pandemia siamo stati tutti un po’ costretti alla clausura. Ebbene, un intellettuale che aveva scelto liberamente la clausura della trappa, Thomas Merton, ha scritto: «Vi sono dei momenti nei quali, solo per mantenerci in esistenza, dovremmo semplicemente metterci a sedere senza far nulla. E per chi ha lasciato che la sua attività lo traesse completamente al di fuori di sé, nulla è più difficile che starsene seduto zitto e quieto, non facendo proprio nulla. Proprio l’atto di fermarsi è il più duro e coraggioso che possa compiere: e sorpassa spesso tutte le sue possibilità. Prima di poter agire saggiamente o fare un’esperienza in tutta la sua realtà umana dobbiamo riprendere il dominio del nostro essere. Ogni nostro agire è vano fino a quando non ci possediamo (Nessun uomo è un’isola, Milano 1991, p. 136).

 Ecco un significato che si può dare al vuoto a credere che è stato il tempo della pandemia.  Quello prospettato da Merton è un far nulla finalizzato al ritrovarsi, a rientrare in sé, a superare la dispersione per giungere a operare saggiamente. Talvolta il non agire può risultare penoso e difficile per chi deve dedicarsi all’azione. C’è l’ansia di dover rispondere a tante domande, a tante richieste, a tanti bisogni. Eppure, il nostro corretto agire – e dunque la nostra stessa vita – non dipende dalla quantità delle azioni, bensì dalla loro qualità.

Raccogliersi, senza fare nulla all’apparenza, ma per tornare “in sé”, per guardarsi dentro e comprendere il senso e le motivazioni di ciò che facciamo, può esser più fecondo di mille variegate e inconcludenti attività. Impossibile interpretare correttamente il nostro tempo, trovare le soluzioni, senza prima sedersi a pensare. Senza il coraggio di fare una “lettura sapienziale” di ciò che accade.    Non si possono dare risposte vere se non si è in grado, al contempo, di porsi in sintonia con la incommensurabile profondità delle persone, anche le più semplici.

Così, pian piano abbiamo capito che il vuoto è fatto per essere colmato, che anzi proprio il vuoto è la condizione migliore per riempire di senso nuovo ed autentico le nostre esistenze. Diventate troppo piene. Di tutto: di cose, di ansie, di aspettative, di recriminazioni. Vite che adesso, forse, sono state “alleggerite” e rimodellate.

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