Mentre tutti cercavano di prevedere l’arrivo del “cigno nero” (un evento imprevisto che genera una crisi), nessuno sembrava volesse vedere il “rinoceronte grigio” (un rischio ben noto che vogliamo ignorare) che correva furioso verso di noi annunciando il salto di livello della crisi ambientale. La pandemia di Covid-19, infatti, è stato l’ultimatum che il pianeta ha mandato alla nostra specie per fermarci: il 98% della Terra (la natura) si è ribellato contro l’enorme impatto ambientale prodotto dal 2% (le città).
Il virus, infatti, ha squarciato l’illusione dell’umanità di essersi emancipata dalle dinamiche ecosistemiche e di essere indipendente dalla natura, nostro ambiente materno. Con la sua corsa attraverso il pianeta, contagiando quasi 5 milioni di persone, uccidendone centinaia di migliaia e costringendo in quarantena quasi la metà della popolazione mondiale, la pandemia ci rivela come “specie imperfetta” (fragile ma arrogante) e reclama una metamorfosi che modifichi profondamente il nostro modo di abitare il pianeta, abbandonando presunte superiorità dietro cui nascondevamo la fragilità dei nostri sistemi urbani.
«La tempesta – ha detto Papa Francesco nella sua dolente e potente benedizione Urbi et Orbi del 27 marzo – smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato».
Siamo in una fase apicale di una pandemia ecologica prodotta dalle modifiche territoriali, sociali, economiche e climatiche generate dall’umanità che dalla Rivoluzione Industriale ha sbaragliato tutte le altre specie viventi, diventando sempre più potente dopo il Secondo Dopoguerra. Un’era chiamata “Antropocene” che, con la sua urbanizzazione espansiva, ha divorato con famelica voracità il suolo naturale, i palinsesti culturali, le trame vegetali, coste e montagne, foreste e spiagge, fino a cacciare il coronavirus dal suo ambiente silvestre, offrendogli una nuova specie da infettare: noi.
Oggi, superata la fase più drammatica e apprestandoci a ripartire con maggiore consapevolezza, abbiamo l’obbligo di ripensare radicalmente il modello di sviluppo, come scrivo nel mio libro sul futuro (Futuro. Politiche per un diverso presente, Rubbettino 2019). Serve una nuova alleanza con la natura, adottando un atteggiamento attivo che ci consenta di agire oggi, progettando un futuro che non sia distopico, ma produca una “utopia possibile” fondata su una rinnovata alleanza tra tutte le specie viventi e tra le città e il territorio.
Da urbanista sono convinto che serva una riflessione competente e di sistema per imparare dalla crisi, per rivoluzionare i nostri comportamenti una volta superata la pandemia, e per evitare – o mitigare – la prossima crisi (che arriverà sicuramente). Significa progettare un modo diverso di abitare il pianeta, realizzando città che non ci facciano ricadere nel dramma di una emergenza sanitaria, ma che alimentino l’audacia della fiducia in un futuro più responsabile. Città ecologiche a prova di crisi in equilibrio con le altre specie viventi, ma soprattutto luoghi privilegiati della salute pubblica. In fondo è un ritorno all’età d’oro dell’urbanistica moderna nata proprio come risposta alle grandi epidemie moderne: si pensi ai piani innovativi di Barcelona (1859) e Londra (1944).
Significa tornare – come abbiamo fatto storicamente in Italia – a progettare città policentriche fatte di quartieri e non di periferie, con densità differenziate e porose alla natura che torni ad abitarle, fondate suuna gestione sostenibile dell’acqua, del cibo, dell’energia, della natura, dei rifiuti. Città che tornino a offrire alle persone la giusta prossimità ai luoghi della produzione e ai servizi senza costringerle ad una mobilità forsennata e inquinante. Sono quelle che io chiamo “città aumentate” perché capaci di amplificare la vita comunitaria senza divorare risorse: città più senzienti per capire prima e meglio i problemi, più creative per trovare risposte nuove all’abitare e alle forme e funzioni dello spazio pubblico, più intelligenti per gestire le informazioni e ridurre i costi di intervento, più resilienti per adattarsi ai cambiamenti e agli shock entro una rinnovata dimensione ecologica, più fluide per accogliere le diversità, più produttive per tornare a generare lavoro e benessere, più collaborative per coinvolgere tutti e, infine, più circolari per ridurre il consumo di suolo ed eliminare gli scarti.
Delle città sostenibili, circolari, creative, a misura d’uomo e di natura parleremo in questo blog, perché per realizzarle serve una visione, ma soprattutto la condivisione da parte di tutti. Perché le città sono i loro cittadini.