Nessuno lo sa ancora con certezza. Ma la voce è insistente, perlomeno quanto significativi sono i silenzi. Che fine hanno fatto le nostre scuole e le nostre università? Che ne sarà, in un futuro prossimo, di lezioni, seminari, esami e lauree?
Quella del distanziamento fisico – fisico, fisico, giacché la distanza sociale è altra cosa e sarebbe bene de-epidemiologizzare il linguaggio comunicativo, oltre che quello scientifico – è un’eredità pesante che, placata l’ira sanitaria di CoVid19, irrompe con tutta la sua virulenza sociale sul mondo. E già, perché purtroppo mai come in questa occasione – lasciatemelo dire, dal mio punto di vista squisitamente didattico – abbiamo l’occasione di sperimentare come il concetto di malattia sia multidimensionale, multiforme, e comprenda certamente anche un rivolto psicologico e uno sociale che si affiancano alla problematica di natura biologica.
E siccome quello del distanziamento è un problema da risolvere, perché rinchiusi in casa si può stare ma non per sempre, pena l’irrimediabile collasso delle economie e degli equilibri mentali, tutte le attenzioni sono rivolte a stabilire tempi, modalità, protocolli, distanze e tutto quanto serva a far ripartire il paese.
Il lavoro è importante, il turismo è importante, lo sport è importante, l’attività fisica è importante, la cultura è importante. Ecco. Fermi un attimo.
La cultura è importante, forse. O forse un po’ meno. La scuola e l’università hanno risposto prontamente al lockdown. Certo, chi un po’ prima chi un po’ dopo; chi meglio e chi peggio, chi entusiasticamente e chi un po’ meno. Ma nel breve volgere di qualche giorno è cominciata un’attività di formazione a distanza inimmaginabile solo qualche settimana prima. Io stesso, che pure bazzico oramai a vario titolo nelle aule universitarie oramai da quasi cinquant’anni, non avevo mai visto nulla di simile e ho proclamato dottori in Sociologia usando il mio inseparabile smartphone, complice anche un improvviso crash del mio pc, collegato da casa. Abbiamo fatto lezioni, colloqui, esami, esercitazioni, convegni, tavole rotonde, sempre stando a casa, e interagendo con gli studenti e con i colleghi per mezzo di piattaforme informatiche.
Lo abbiamo fatto, e lo abbiamo fatto bene considerati i mezzi a disposizione ma sia chiaro: è una soluzione d’emergenza. E le emergenze, è ovvio, vanno bene per periodi brevi. E’ come mettere un cerotto su una ferita: funziona, ma dopo un po’….
L’idea che la presenza fisica degli studenti nelle Università sia un optional è profondamente sbagliata. Perché a dispetto dei paladini della formazione a distanza e di chi brinda ad un finalmente sdoganato rapporto fra istruzione e nuove tecnologie, quella di insegnare in questo modo è un’idea molto arretrata. E’ figlia di un modo di concepire la didattica universitaria tipica degli anni ‘50 del secolo scorso, quando il modello di apprendimento era stato concepito come mero trasferimento di conoscenze, con lezioni cattedratiche (ah.. quanto piacciono ancora ad alcuni le cattedre…), praticamente senza interazioni professori/studenti (e ancora oggi ci trasciniamo questa modalità anche nel linguaggio burocratico quando parliamo di lezioni frontali) e con la preparazione affidata all’inossidabile binomio lezione frontale/studio del manuale.
Fosse veramente così, le Università – e perché no? Anche le scuole – potrebbero in fondo essere tutte telematiche. Registro le mie lezioni (sempre quelle, inossidabili, resistenti al vento del mutamento scientifico e sociale), le posto sulla piattaforma, aggiungo il manuale e via. Una shakerata e ci vediamo all’esame. Sempre online, of course, e magari anche con un test a risposta multipla.
Non ci siamo. Non ci siamo perché la scuola e le Università hanno bisogno di tornare ad essere anche i luoghi nei quali la cultura si costruisce sulla base di scambi e di interazioni sociali che sono parti imprescindibili dei processi di apprendimento. Certo, anche rispettando il distanziamento fisico che forse ci farà compagnia per molto tempo, che problema c’è? E vedere che di tutto si parla in questa fase 2 della riorganizzazione del nostro Paese lasciando per ultime scuola e Università ci rafforza ancora una volta di più sul convincimento di quale sia il posto attribuito a cultura, istruzione e formazione nella scala dei valori: una posizione (considerati anche i fondi destinati negli ultimi decenni alla ricerca e alla didattica) certamente di cenerentola. Allora lasciamo pure che le cose vadano come devono andare; lasciamo che generazioni di studenti di ogni età interiorizzino questa modalità – forzata, temporanea, da tampone – fino a ritenerla praticamente normale. Ecco il danno maggiore che possiamo fare per il modello educativo nel nostro ri-trovato paese postCovid19.