In numerose occasioni ho sostenuto che la città è un potente vettore di democrazia della cultura occidentale: luogo in cui la dimensione politica genera relazioni urbane che a loro volta danno forma al nostro essere politico. E’ di Hannah Arendt la più lucida definizione della polis come spazio e comportamenti. Nei suoi scritti sulla politica (Che cos’è la politica?, Torino Einaudi, 2006)scriveva infatti: «la politica non nasce nell’uomo ma fra gli uomini» e «la città offre uno spazio fra gli uomini in cui la politica, la vera politica, diviene possibile». La politica, quindi, non si sviluppa nello spazio domestico, protetto ma segregato (come abbiamo sperimentato nei giorni della quarantena), ma si alimenta, invece, dello spazio pubblico dove le diversità di incontrano, si scontrano e si ricompongono generando nuovo spazio.
La città è, quindi, spazio politico perché è edificata intorno alla “piazza” (nelle diverse accezioni del termine) dove uomini e donne liberi e uguali possono incontrarsi in ogni momento costruendo la democrazia. La città è un affascinante, complesso, seducente abitare collettivo. Non è la somma dell’abitare domestico e familiare, non è uno spazio partigiano o di una tribù, ma è frutto di una relazionale molteplice e, spesso, conflittuale che dà spazio, corpo e sostanza al nostro essere politico. Lo spazio urbano plurale si fa spazio democratico, luogo dove le persone, le idee, le azioni, si incontrano generando relazione “fra” differenti libertà che si fanno collettivo.
La città è una «mediazione tra le mediazioni», scriveva con lucidità Henri Lefebvre nel suo libro dedicato al “diritto alla città” (Il diritto alla città, Verona, Ombre corte, 2014), poiché costituisce un’interfaccia permanente tra le relazioni degli individui, informali e destrutturate, e quelle delle organizzazioni sociali, istituzionali e normate: genera costantemente spazio di partecipazione democrazia. Se le città sono i corpi vivi da cui soffia il respiro del cambiamento, tuttavia, esse sono anche i luoghi dove le diseguaglianze e le marginalità stanno emergendo con sempre maggiore virulenza, scatenando vere e proprie epidemie che nascono dalle aree periferiche più carenti di qualità ed equità, per estendersi verso l’intero organismo urbano, minandone lo stesso statuto cooperativo e solidale che è alla base della nascita della città.
La risposta non può essere un generico sentimento anti-urbano (come abbiamo spesso sentito in questi giorni), ma reclama il rafforzamento del diritto alla città come parte dei diritti umani, che non è solo garanzia di servizi essenziali, ma è diritto al lavoro, alla partecipazione, alla salute, all’accoglienza, alla felicità, alla coesione, al benessere e alla bellezza. È diritto al futuro! Sono convinto che la cura più potente contro l’epidemia dell’anti-città sia riaffermare la città dei diritti connaturati a noi “esseri urbani”: la cooperazione tra i cittadini, la qualità della vita relazionale, la bellezza dei luoghi di vita e l’opportunità di accrescere il proprio benessere in forme non egoiste.
Per rigenerare la nostra democrazia dobbiamo partire dalle città, tornando ad averne cura anche come luogo di dialogo, come spazio di relazione che genera la politica. L’Italia deve ripartire dalle sue città, grandi, medie e piccole, metropoli e borghi, per generare nuova politica come costruzione del collettivo di liberi. Significa sperimentare il ritorno al futuro dell’Italia delle “cento città”, già celebrata da Carlo Cattaneo (“La città considerata come principio ideale delle istorie italiane”, Il crepuscolo, nn. 42, 44, 50 e 52, 1858), come modello plurale di città a identità e intensità urbana differenziata, ma tutte capaci di offrire accoglienza e cura alle comunità.
Io immagino l’Italia come una nazione ri-fondata sulle sue città come i pilastri del benessere dei cittadini, dell’eguaglianza delle persone, della sostenibilità ambientale e della creatività dei suoi talenti. Molte città lungo il paese stanno già sperimentando queste innovazioni, dando forma ai nuovi diritti urbani, generando spazio di democrazia, innovando le relazioni. Io le chiamo le città del diverso presente, perché non si arrendono e con audacia progettano e governano il loro nuovo protagonismo politico partendo dalla rimodellazione dello spazio pubblico, dello spazio democratico del “fra noi”.
Naturalmente in epoca postpandemica (e nell’orizzonte di un lungo periodo di convivenza endemica con il virus) la sfida sarà quella di rianimare le piazze per garantire lo sviluppo del diritto alla città come una forma superiore dei diritti: diritto alla libertà di pensiero, diritto a nuovi modi di abitare il pianeta in maniera responsabile, diritto alla cura dello spazio pubblico. Non dimentichiamo, quindi, che è lo spazio urbano la più potente fucina dei diritti, in grado di rianimare il cuore stesso della democrazia urbana, che affonda le sue radici nella polis, madre della politica come responsabilità e arte di guidare la vita collettiva.